Il prete, oramai in abiti civili, si muoveva come al rallentatore mentre, mani alzate, si girava lentamente verso il commissario. Marcon si sentì sollevato come se si fosse tolto il cilicio: non era assolutamente sicuro che quello strano personaggio sarebbe sceso a miti consigli, vista l'assoluta mancanza di logica e di prudenza nei suoi comportamenti precedenti. Sarebbe davvero riuscito, Marcon, in caso di necessità, a sparare a quell'assassino? Probabilmente sì, perché si ricordava perfettamente l'amico e l'altro ragazzo che erano finiti sotto le sue grinfie. Immaginava il prete vestito con una dalmatica e una stola decorata da calcedoni e pietre dure, adeguate all'ossessione religiosa che sembrava possederlo, avvicinarsi alle sue vittime, già sapendo perfettamente cosa dovrà fare. Marcon si ritrovava, ogni tanto, a pensare al cadavere di Carlo; un corpo senza vita non è piacevole da vedere, ma un corpo senza vita e mutilato esprime una violenza e una tristezza indicibili, e nel caso di Carlo la mutilazione era la peggiore immaginabile. Il prete non doveva permettersi ciò che aveva fatto, Marcon aveva sognato di essere nell'attuale posizione: con una pistola in mano e il prete nel mirino. Sapeva che l'unico modo per non doversi sentire colpevole nel resto della sua vita per avere abbandonato l'amico era di vendicarlo, e nel modo più selvaggio, non chiudendo in prigione l'assassino, ma applicando la legge del taglione. Peccato che questo non gli avrebbe placato la coscienza, avrebbe solo modificato il rimpianto in rimorso: avrebbe avuto da pentirsi di avere ucciso un uomo indifeso per il resto della vita.
Ma fu un momento. Marcon aveva sempre creduto nell'inutilità, anzi, nella dannosità della vendetta personale, non si sarebbe fatto trascinare nel cafarnao di violenza. Ma sembrava non essere necessario usare la pistola, oramai il prete aveva lasciato cadere il coltello, le sue mani erano aperte e Marcon, sempre con la pistola puntata, si era allontanato lentamente per non lasciare possibilità di reazione all'avversario. Orsolina sembrava tranquilla, ancora sotto le lenzuola.
Marcon aveva per la testa un gran numero di domande da fare al falso prete, a quella persona in cui poteva immedesimarsi, tanto da prevedere che avrebbe seguito Orsolina fino a casa, probabilmente ossessionato dalla bellezza della donna, ma che non sarebbe mai riuscito a comprendere. Cosa lo aveva portato a fare più vittime di una epidemia di ebola al suo passaggio? Perché la sua vita era diventata una corsa australiana in cui aveva deciso di eliminare a uno a uno tutti gli avversari che incontrava sulla pista? A cosa era dovuto il giacobinismo religioso che Marcon aveva intuito essere il propulsore della sua malvagità? Un ghibellino come Marcon aveva delle grosse difficoltà a capire gli invasati che uccidono per la religione, o che addirittura si uccidono nel tentativo di annientare il male che ritengono allignarsi in chi non crede al loro stesso dio.
Le domande dovevano aspettare ancora un po', ora bisognava mettersi al riparo da qualsiasi sorpresa, come è indicato in tutti i manuali della polizia. Una caratteristica di Marcon era di dimenticare invariabilmente di portare le manette durante le operazioni sul campo, per fortuna spesso lavorava col Cociglio, che invece era sempre equipaggiato perfettamente. Con un po' di apprensione aveva quindi portato la mano sinistra alla tasca del trench e l'aveva battuta, con sollievo sentì il freddo tintinnio del duralluminio.
La mano nella tasca aveva raggiunto la sagoma famigliare delle manette, agganciò un anello con le dita, fece per estrarre la mano ma non vi riuscì. Si erano incastrate nella tasca, quelle tasche sempre consunte e piene di fili e buchi. Istintivamente, senza pensarci, abbassò la testa per aiutarsi a estrarle con lo sguardo.
L'impermeabile, da marrone che era, virò al rosso cupo. Sentì una vampata di calore al volto e al petto. Fu inondato da un fiume di sangue. Non aveva sentito rumori, ma doveva essere esploso un colpo di arma da fuoco.
Non ebbe il coraggio di alzare il capo, guardò semplicemente di sbieco verso il prete. Era ancora in posizione eretta, leggermente curvo in avanti, e dove di norma ci si sarebbe aspettati una testa si trovava un'orchidea rosso cangiante, ribollente e danzante nel suo vaso umano. Dietro l'orchidea era Orsolina, trasfigurata in una maschera di pazzia e di trionfo, con le due mani sul calcio di una pistola lucente come la spada di san Michele.
Marcon, con l'impermeabile oramai testa di moro, guardava immobile la bocca della canna della pistola. Trattenne il respiro per lunghi istanti, la pistola in mano puntata sul sacco che si stava afflosciando e che una volta era un falso prete. L'orchidea era oramai appassita su se stessa. Poi Orsolina abbassò d'un colpo l'arma, si lasciò cadere sul fianco e si nascose sotto le lenzuola.