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Il paese ritrovato

Capitolo diciottesimo

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Cociglio adorava le giornate come questa. Sempre di corsa, da una parte all'altra della città, con la sirena che urlava e il lampeggiante magnetico attaccato sul tettuccio dell'automobile. Che tutti vedessero, una volta ogni tanto, che quella berlina non era una macchina qualunque, mentre sfrecciava per i viali cittadini. E poi gli piaceva vedere il commissario al lavoro. Era sempre una sorpresa vederlo stringere gli occhi sui dettagli, stupirsi di cose assolutamente normali. O, perlomeno, che a tutti sembravano "normali". A lui, per esempio, non sarebbe mai venuto in mente di scucire il bordo di quella copertina di marocchino rosso che copriva il computer. Ma il commissario lo aveva fatto, e ci aveva trovato quella roba strana che si era subito infilato in tasca. Era bello vedere il commissario che tornava a fare il commissario. Lui, Cociglio, conosceva i suoi propri limiti... era bravo a correre con le macchine, bravo a restare di guardia per notti intere, bravo a tenere bloccati i delinquenti che quando meno te lo aspetti tirano fuori un taglierino dalle scarpe e ti aprono uno squarcio in gola. Ma quanto a trovare le magagne nascoste, no... non ci era proprio tagliato. In Centrale lo prendevano pure in giro, per questo. Al suo ultimo compleanno i colleghi si erano presentati con un bottiglione da cinque litri di vino, con un'etichetta che diceva "Barbera D.O.C.G., metodo champenois del monastero di Albuquerque", e lui lo aveva portato a casa tutto fiero, convinto che fosse un vino più prezioso dello champagne. Suo padre lo aveva preso in giro per una vita, per quella storia, ma, diavolo... non era barbera-champagne, ma barbera buono lo era eccome!

Il commissario, invece, sembrava fatto apposta per quelle cose piccole e impalpabili. Aveva perlustrato un quarto d'ora attorno al computer, prima di accenderlo, per esempio. Dopo che lo aveva acceso, invece, manco tre minuti gli erano bastati per dire "questo lo portiamo in centrale, oppure gli tiriamo via l'hard-disk". Sembrava una minaccia, boh. Come se volesse castrare quell'ammasso di ferraglia.

Però Cociglio pensava pure che qualcosa di strano il commissario ce l'aveva pure lui. Non voleva farlo capire, ma si vedeva benissimo gli venivano gli occhi stupidi quando guardava quella tizia. Per carità, Cociglio era in grado di capirlo; quella signora lì aveva più curve della salita del Nivolet, e una faccia che vedi solo proprio sul Nivolet, quando ci arrivi in bicicletta e i 2700 metri di altitudine ti tolgono l'ossigeno e la fatica della salita ti toglie la voglia di vivere. Lui c'era quasi rimasto, l'anno scorso, e subito prima di svenire gli era sembrato davvero di vedere una specie d'angelo che scendeva in volo planato dal Gran Paradiso, o magari era solo il paradiso normale, e quest'Orsolina qui aveva una faccia quasi uguale a quella. Un po' meglio, forse. Quindi, che vuoi dirgli al commissario... è normale che si rimbambisca un po'. Però, ecco: Cociglio si stupiva proprio quando al commissario capitavano cose "normali". Ad esempio, lei aveva i lacrimoni, mentre metteva di corsa un po' di cose nella borsetta: chiavi e soldi, trucchi e cipria, un paio di libri tascabili e almeno tre matite: ma la faccia più triste era quella del commissario, in quel momento, si vedeva benissimo. E questa sarebbe stata pure una cosa normale, se il commissario fosse stato impigliato nella rete di quegli occhioni verdi. Ma per il commissario non sembrava "normale".

Però, a parte questo, il commissario era una autentica furia, sul campo delle indagini. Quando erano finalmente arrivati nel posto dove c'era quell'altro morto, a Cociglio gli era presa subito una tristezza che lèvati... hai voglia a dire che era primavera. Quella era una discarica abusiva, squallida come... come una discarica abusiva, cosa c'e' mai di più squallido? C'era il sole delle due del pomeriggio e neanche un arbusto in giro, e più che Aprile sembrava di essere in un deserto nel bel mezzo d'un'estate tropicale. E il commissario stava di nuovo lì, di nuovo col trench addosso - chissà dove l'aveva recuperato, poi, che Cociglio non se ne era proprio accorto di come avesse fatto - lì, a parlare fitto fitto con quello della Scientifica. E va' a capire cosa si dicevano... le impronte, si spiegavano l'uno con l'altro, le impronte c'erano e ce n'erano parecchie. Il tizio in camice bianco raccontava che la più chiara e nitida stava su un sasso strano, che continuava a chiamare piperno, e anche questo gli sembrava impossibile. A lui Piperno ricordava solo il nome d'un vecchio presunto brigatista, gliene parlava suo padre quando il poliziotto di casa era ancora lui, prima di andare in pensione, e quando lui, Cociglio jr., futuro poliziotto, ancora giocava con i pupazzetti degli ovetti kinder. Adesso, invece, sul piperno sembravano stamparsi le impronte digitali, e Cociglio sentì bene quando il commissario abbaiò che gli servivano subito i risultati dei confronti con tutte le impronte registrate in tutti i database della Repubblica, e che non facessero come stamattina, quando dopo un'ora di attesa aveva scoperto che nessun tecnico informatico poteva raggiungerli nel domicilio dell'arrestata, per "cause di forza maggiore". Sbraitava e urlava, il commissario, e stava tornando un po' meno pallido. E questo era importante. Il commissario Marcon doveva avere un trench lurido e unto addosso, e la faccia rossa da iperteso, pensava Cociglio. Sennò erano guai per la Questura.

Adesso, poi, di corsa e di nuovo in Centrale. C'era da divertirsi davvero, perché quando aveva chiesto al commissario "Devo correre, capo?", Cociglio si era aspettato una delle solite risposte del commissario: "No, per niente", oppure "Sì, puoi correre un po'". Ma Marcon gli aveva risposto "Fa come ti pare, Cociglio.", e questo capitava davvero una volta ogni morte di papa. Dire "fa come ti pare" all'agente Cociglio significa essere pronti e disposti a toccare i centottottanta all'ora in Corso Francia. E, poi, a forza di avercelo appresso per tutta la giornata, magari il commissario sui sarebbe pure dimenticato della sua usuale cautela, e forse non avrebbe protestato se Cociglio, facendo finta di niente, si fosse addirittura infilato di soppiatto nell'ufficio misterioso, dove già l'ispettore Zucchelli lo stava aspettando.

Dall'ufficio di Marcon i platani di Corso Vinzaglio si indovinano appena. La finestra al terzo piano dava su una via traversa, ma non troppo lontana dall'incrocio con il corso torinese. Dalla sua scrivania il commissario riusciva così a vedere solo un piccolo ritaglio di verde, quando la stagione lo consentiva. E quella primavera che il suo animo leggeva come scura e tenebrosa aveva invece, al pari delle precedenti, colorato di un verde chiaro le nuove foglie che ombreggiavano il viale. Marcon guardava quel verde nuovo quasi con stupore, meravigliato dall'obiettività dei suoi occhi; sentiva il mondo greve e tetro, ma i suoi occhi registravano quella tonalità nuova e vitale. Si sentiva quasi tradito dalle sue retine, e confortato invece dalla sua pelle. Un sole d'aprile scaldava la città, ma lui continuava a sentire addosso un freddo polare.

Dall'altra parte della scrivania sedeva Zucchelli. L'ispettore aveva appena finito di ascoltare il resoconto del commissario; un resoconto verbale e diretto, che non avrebbe mai visto la carta e i documenti ufficiali. Era il racconto della storia dall'inizio, raccontata come si racconta un guaio ad un collega, ad un amico, quasi ad un confessore. E l'ispettore Zucchelli la aveva ascoltata con attenzione, senza perdere i dettagli, senza protestare per le inevitabili divagazioni che sembravano portare il discorso lontano dalla sua trama principale. Non era un interrogatorio, non era neppure un contraddittorio: quell'esercizio poliziesco che ogni tanto i due facevano per verificare l'un l'altro la solidità delle ipotesi e delle indagini. In quei casi, il gioco dialettico assomigliava ad una partita di tennis, con loro due nei panni di due atleti accaldati e cattivi, che tentano ad ogni colpo di parare la voleè dialettica dell'altro, e nel contempo rispondere con un lob arguto e spiazzante. Stavolta era stato diverso; Zucchelli aveva seguito e non contrastato il racconto del commissario, aveva annuito e anzi cercato di tenere sempre vivo il racconto, aiutando il flusso delle parole ad uscire, continuando a tenere in alto quella storia dolorosa, come un maestro cerca di mantenere in volo il volano dell'allievo durante un allenamento di badminton. E Marcon aveva parlato, e raccontato, e non aveva parlato come parla un poliziotto che illustra la meccanica di un crimine o la scena di un delitto. Cociglio era invece rimasto in piedi, silenzioso e senza quasi dire parola. Guardava con attenzione esagerata la gabbia del canarino e l'uccellino che, a dispetto dal clima austero dell'ufficio, continuava a cantare il suo canto di primavera. Ma quella dell'agente era solo una posa; non era mai stato così a lungo nell'ufficio del capo, che era un luogo ammantato di leggenda per tutti gli abitanti della questura. Gli oggetti ammucchiati e in disordine esercitavano un fascino assoluto, come quello che prova un bambino nell'emporio d'un robivecchi. Quando notò una vecchia foto appesa alla parete, dimenticò persino la prudenza e l'atmosfera greve che caratterizzava la giornata.
- Non dirmi che questo sei tu, commissario! Hai fatto canottaggio, da giovane?
- Io sono ancora giovane, Cociglio, non dimenticartelo - Marcon non era dispiaciuto del cambio di argomento, aveva bisogno di riposare il cervello e il cuore - e poi tu dimmi se hai mai visto una gara di canottaggio fatta con barche di sei canottieri.
- Oh beh. Ci sono tutti i numeri, mi pare. Cioè, quelli pari, voglio dire: due, quattro, sei, otto; con, senza, di coppia... o sbaglio?
- Sbagli. Il "sei" non c'è, né "con" né "senza", tanto meno "di coppia". E io non ho mai fatto canottaggio in vita mia. Quello della foto è mio padre, su una margherotta, durante una festa patronale a Chioggia.
- Ma va! Non sarà che sei veneto, commissario? Ero convinto che fossi un piemontese puro sangue! Pensa che anche mio nonno...
- Cociglio. - Zucchelli disse solo il cognome, senza intonazione, ma fu sufficiente. L'agente tornò perfettamente silenzioso e perfettamente interessato unicamente al canarino.

Marcon fissò negli occhi l'ispettore, che aveva ascoltato paziente il suo racconto. Lo interrogò prima con lo sguardo e poi con la voce.
- Sei famoso per essere laconico, ispettore Zucchelli, ma io non ho parlato per tre quarti d'ora per vedere la tua bella faccia pietrosa alla fine di questo racconto. Fa' il bravo e dimmi cosa ne pensi, adesso.
Zucchelli sospirò e cominciò a parlare con lo sguardo fisso verso la finestra.
- Che vuoi che ti dica, commissario? Vuoi che ti racconti come uno sbirro non coinvolto vede questa storiaccia "da fuori"?
Marcon assorbì il colpo, anche se non se lo era aspettato così presto. Quel puntualizzare sul "non coinvolto" e sul "da fuori" non lo rendeva di buon umore.
- Diciamo così - concesse.
- Beh, è una storiaccia, commissario. Ci sono troppi morti, non si capisce davvero perché ci sia tutta questa fretta nello scannare le persone. Il primo era un usuraio, e se fosse davvero l'anello iniziale di tutto, beh, avremmo quantomeno un'indagine classica e normalmente putrida da imbastire. Ma già la ragazzina di Sciolze stona, nel quadro di un indagine "normale". E il legame fra i due omicidi...
- Il legame c'è, te lo detto. Fìdati, anche se non ti ho ancora detto quale legame sia.
- E va bene - sospirò l'ispettore - i due omicidi sono legati in qualche modo, e senza dubbio lo sono anche con gli altri due. Ma, in fondo, cosa c'è da scoprire? L'assassino tu lo sai già, chi è, giusto?
Marcon restò silenzioso, e Zucchelli continuò.
- Tutto ruota attorno a questo sedicente Fabrizio Pieri, che però certamente non si chiama Fabrizio Pieri. A pensarci bene è ridicolo: abbiamo già quattro morti ammazzati e un assassino certo: oddio, magari non ha materialmente eseguito tutte e quattro le esecuzioni, anzi, forse dal punto di vista strettamente tecnico non ne ha eseguita materialmente neanche una, ma fatto sta che una delle poche cose chiare di questa storia è che il cattivo è lui - fece una pausa teatrale, il tempo d'un sospiro - e non sappiamo neanche come si chiama. Tutto il contrario di quello che insegnano all'accademia, tutto il contrario di quello che trovi sui romanzi gialli... c'e' sempre un movente, una causa, un meccanismo da seguire e da interpretare, e alla fine della ricerca sei premiato dalla scoperta del colpevole. Qui abbiamo un ammazzasette che tu hai persino visto in faccia, che scanna chiunque gli si para davanti, e non abbiamo ancora uno straccio di ipotesi sui moventi.
- A meno che non sia un serial-killer! - era la voce di Cociglio, che aveva interrotto l'ispettore
- Beh, sarebbe un comportamento alquanto insolito anche in questo caso - sospirò l'ispettore, mostrando di riuscire a tollerare persino quell'osservazione - un serial killer ha in genere una patologia criminale ben determinata, tende a far fuori la stessa tipologia di vittime, ha un "modus operandi" fisso e basa tutta la sua strategia criminale sul fatto che è ignoto e insospettabile, almeno all'inizio. Qui invece abbiamo un tizio che non è spaventato dal mostrarsi, naviga tranquillo tra mostre cittadine e sabba stregoneschi come una barca che fieramente ostenta il suo genoa al vento. E finora, in questa macabra regata, è di molte lunghezze avanti a noi.

Marcon aprì i cassetti della scrivania. Stava probabilmente cercando un mezzo hamburger avanzato.
- E allora? - chiese.
- E allora niente, commissario Marcon. L'unico legame solido con quel figlio di puttana è quella pin-up che il Giudice delle Indagini Preliminari sta torchiando adesso in qualche ufficio della Cittadella Giudiziaria. E' così solido e chiaro che il prete dovrebbe sbrigarsi a reciderlo quanto prima... almeno è quello che farei io, fossi al posto suo. Ha ammazzato il tuo amico, ha fatto secco il vero Pieri, che probabilmente hanno solo lontanamente sfiorato la cloaca che è solito abitare. E invece la tipa che si scopava regolarmente e che meglio lo conosce è ancora viva e...
- Non se la scopava per niente, Zucca. - quello di Marcon era un ringhio sommesso.
- Non se la scopava per niente. E' questo il problema.
- Come sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire che il fatto che non dovrebbe essere niente più di un dato, se quei due facevano sesso insieme o no. Una notizia, un mezzo indizio, niente di più. E invece il solo parlarne ti fa venire una faccia non troppo diversa da quella che fece un galileo inchiodato ad un palo un paio di millenni fa, alla periferia di Gerusalemme. E' questo il problema, in quest'indagine.

Zucchelli si alzò dalla sedia, si appoggiò alla scrivania e piantò gli occhi in quelli del commissario.
- Guàrdati, Marcon. Ossèrvati. Oggi sei tornato ad essere poliziotto, i ragazzi m'hanno detto che sembravi un segugio sulle tracce della selvaggina, nervoso e concentrato. E questo va bene, benissimo. Ma devi sforzarti di fare l'ultimo passo, no? Sei stato tu ad insegnarmi il mestiere, quindi mi sento un cretino a ripeterti queste cose... ma fai un minimo di mente locale, diamine! Hai un delinquente assassino da prendere, hai quattro morti ammazzati, hai adesso anche indizi, prove, hard disk da scandagliare, impronte digitali da confrontare, e magari qualcos'altro che, come al solito tuo, tirerai fuori da cappello solo al momento opportuno. Ma, ed eri tu che me lo ripetevi fino alla nausea, anni fa, un'indagine poliziesca è una cosa che non ha niente a che vedere con i romanzi polizieschi. E qui non abbiamo neanche la suspense di scoprire chi sia il colpevole. Dobbiamo solo scoprire dove si nasconde quel figlio di puttana. Scovarlo, prenderlo, e poi metterlo in un pacchettino infiocchettato per la magistratura. Tutto qui. Solo che tutti quelli che lo sfiorano rimangono stecchiti, e non ci possono aiutare a trovarlo.
Tutti morti. Tranne una.

Zucchelli si riaggiustò la cravatta che aveva allentato, si spolverò con noncuranza le maniche, e controllò che le sue scarpe fossero perfettamente lucide. Si predisponeva a lasciare l'ufficio di Marcon, ma si fermò solo un attimo ancora, con la mano già sulla maniglia, voltandosi ancora verso il commissario.

- Torchiala, Marcon. Mettila giù dura, con lei. Strizzala, trattala male, tirale fuori ogni cosa. - sospirò - Dopo, magari, se è davvero pulita e innocente, puoi pure sposartela. Adesso è vedova, no?

 

Capitolo diciannovesimo

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