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Il paese ritrovato

Capitolo dodicesimo

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Marcon era allibito per come si era comportato il suo amico. Doveva aver completamente aver perso la trebisonda, lo stress, forse, o semplicemente quella donna. Non riusciva a credere che non avesse reagito alla sua dichiarazione del rientro a casa dalla moglie, come se non sapesse che non c'era nessuna moglie ad aspettarlo a casa. Doveva essere quella donna, Orsolina, a mandarlo completamente fuori dai fogli, dopo averla vista in quel bailamme non si era più ripreso. Certo che non era facile nemmeno per lui, malgrado la lunga esperienza di poliziotto, rimanere in sé, osservando la ragazza seduta su un divano alla turca in un angolo del salone, con quelle gambe lunghissime, tenere sotto controllo il povero Carlo, e ascoltare quel demente di Fabrizio che continuava a blaterare scemenze mistiche.
Dopo essersi defilato con la scusa della moglie inesistente, si era posizionato in modo da non essere visto nè da Orsolina nè da Fabrizio, ma da poter cogliere i movimenti di entrambi. Aveva cercato di spiegare la cosa a Carlo, che però non capiva, e aveva seguito con lo sguardo il presunto Fabrizio che, senza farsi notare, dava indicazioni a Orsolina. Si sarebbero separati presto, e nella sua berlina parcheggiata fuori non c'era nessuna radio per chiamare rinforzi, che comunque non sarebbero arrivati in tempo.
Comunque era ora di agire, la ragazza si era alzata e i suoi sensi di poliziotto avevano colto un rapido segnale di Fabrizio verso di lei. C'era qualcosa di poco chiaro, e doveva decidere velocemente che tattica seguire, e Carlo non poteva aiutarlo, nello stato in cui era. Eppure gli sarebbe piaciuto potersi sdoppiare, seguire Carlo e questo strano amico - di cui lui si era fidato tanto da raccontargli tutti i dettagli dell'indagine, ma che sembrava un personaggio completamente diverso da come lo dipingeva il suo vecchio compagno di scuola -, e allo stesso tempo Orsolina, sicuramente sospetta, e che - ancora più sicuramente - non stava andando a casa.
Si sentiva come uno scherzo della natura, uno di quei gemelli siamesi con due teste e un solo corpo, doveva accettare un compromesso, seguire il suo singolo paio di gambe. Tutta la situazione lo mandava in bestia. Questo posto era un covo di personaggi ambigui e di certo poco raccomandabili, non si vedevano telefoni da nessuna parte ed era possibile che qualcuno lo notasse, prima o poi. Tutti si conoscevano e parevano essere in quel salone con lo stesso scopo. Per un attimo provò l'intenso desiderio di andarsene, di obiettare, di rifiutarsi di essere coinvolto, ma fu solo un attimo, non sarebbe stato un atto da aventiniano, piuttosto assenteismo, e non se lo sarebbe mai potuto perdonare. Doveva pensare in fretta, doveva concentrarsi e riuscire a pensare. Cercò di estraniarsi da quella scena, immaginarsi come ai tempi in cui sua madre era fiera di lui e lui vinceva competizioni sulla neve, e affrontava le difficoltà prendendo un profondo respiro, effettuando virate telemark con perizia decidendo l'istante preciso all'ultimo momento, ed ottimizzando al massimo la traiettoria. In questo momento la vita di Carlo poteva essere in pericolo, e lui voleva assolutamente seguire quella donna, che lo attirava più di ogni altra cosa al mondo, e che probabilmente era anch'essa in pericolo, a quanto pareva ammaliata da questo sedicente Fabrizio.
Ed ecco che la nuova lucidità gli fece notare un particolare interessante: c'era un altro osservatore esterno in quella scena, e stava osservando anche lui, indeciso sul da farsi. In pochi istanti un altro Fabrizio Pieri era al suo fianco e gli parlava a voce bassa, lentamente e molto chiaramente, formulando un piano e delle ipotesi. Marcon non sapeva se fidarsi o meno, e la stanchezza gli stava tagliando le gambe. Si malediva per non aver bevuto tutta la moca che si era preparato prima di venire in quel posto maledetto. Marcon si scosse, pensando a Carlo in una pozza di sangue, con le interiora in un canopo, come se la mescolanza delle barbare usanze di cui aveva letto potesse avvicinarsi al civilissimo modo di conservare i corpi degli egiziani. Era stanco, stanchissimo, e quell'ometto vicino a lui sembrava veramente corrispondere alla sua immagine di Fabrizio, e l'idea che gli era venuta non era male, dopotutto.
Fabrizio a sua volta, dopo aver fatto il giro di tutto il salone in modo noncurante, aveva rimuginato sui nomi di un capannello di persone che aveva passato. Marcon, Carlo, un altro se stesso, non poteva essere una coincidenza. All'improvviso aveva in mente un quadro molto preciso della situazione, anche se era arrivato tardi per capire che cosa si erano detti i tre, sapeva istintivamente che sarebbe dovuto scomparire alla vista di tutti per non attirare l'attenzione, e come Marcon voleva seguire entrambi.
Mise in mano al poliziotto un pennarello indelebile di color magenta, e Marcon annuì, infilandolo in tasca. Non gli andava che avesse scelto lui chi doveva seguire, ma non aveva la forza di discutere, e poi si stavano muovendo, il falso Pieri con Carlo da una parte, Orsolina dall'altra.
Abbassò ancora lo sguardo verso la teca dietro cui si era nascosto per un po', che conteneva un minerale, probabilmente argilloso, e riportava una descrizione lunghissima delle proprietà assorbenti dello stesso. bentonite, pensò, e ci assorbono il bene o il male dagli oggetti benedetti o maledetti. Questi sono tutti pazzi, e io ci sono proprio in mezzo.

 

Capitolo tredicesimo

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