I Savoia adoravano la caccia. Almeno quelli avevano regnato sul Piemonte e sull'Italia: i dintorni di Torino sono costellati da regali palazzi destinati esclusivamente al passatempo preferito dai regnanti di stirpe piemontese. Di quelli che non regnavano più, e che finivano su Novella 2000 ogni settimana non si sapeva granché, in merito alla loro predilezione predatoria; sì, Vittorio Emanuele aveva steso a fucilate un turista sull'isola di Cavallo, anni addietro, ma questo significava solo che gli erano antipatici i turisti, non necessariamente che amasse sparare alle pernici. Venaria Reale, subito ad ovest di Torino, portava nel nome il proprio destino, e non è difficile immaginare l'uso che i reali facessero del vicino parco della Mandria. Ma era a sud che si vedeva il trionfo architettonico e venatorio della dinastia sabauda, sulla strada verso Pinerolo. La maestosa Palazzina di Caccia di Stupinigi accoglie il visitatore abbracciandolo, con solo un po' meno grandezza e un po' più laicismo di quanto faccia a Roma la Basilica di San Pietro.
Bianca e pigra, la palazzina sembra quasi dimenticata in mezzo alla campagna, specie adesso che la campagna quasi non c'e' più. Pochi chilometri a nord ed è già territorio Fiat, cosicché il palazzo dei Savoia sembra assediato dalle costruzioni imprenditoriali dell'altra dinastia torinese, gli Agnelli. Appena dietro, verso sudovest, sorge l'ippodromo di Vinovo, e la progenie dei cavalli che una volta erano relegati nelle stalle regie saettano sulla pista erbosa e volgare, mentre personaggi senza sangue blu incitano e scommettono, urlano e concionano di incollature, di accoppiate, di oaks e di martingale, di rotture e di fantini venduti. A nord i nuovi re, a sud i giochi del volgo. E ancora, proseguendo solo ancora un po' verso Pinerolo, schiere di prostitute slave e africane seggono lungo i viali che avranno a suo tempo visto altri tipi di baldracche: le nobili e meno nobili cortigiane, di crinoline vestite.
La ghiaia davanti all'ingresso della Palazzina di Caccia si lamentava appena sotto i passi leggeri di Orsolina. Era arrivata in anticipo all'appuntamento, e adesso doveva pazientare. Fissò lo sguardo sul grosso cervo di bronzo che troneggiava sulla cupola, indugiò a lungo a seguire le curve della facciata. Che stile era, poi? Liberty? Barocco piemontese? Fosse stato anche romanico o gotico, non sarebbe riuscita a capirlo, tesa com'era. Nonostante anni di liceo artistico e una quasi laurea in architettura. Cercò di forzarsi alla calma. Tra poco sarebbe arrivato, avrebbe potuto sentire i suoi consigli e la sua voce, e tutto sarebbe tornato sereno. Mancava poco, ormai. Solo dieci o quindici minuti, e lui di solito era puntuale.
Decise di entrare nel piccolo museo ricavato nei locali di quelle che una volta erano le regali stalle del palazzo. Una visita veloce sarebbe forse servita a far passare il tempo più veloce: erano in mostra le argenterie e i servizi da tavola della Palazzina. Una mostra noiosissima, per i suoi gusti; ma forse proprio per questo adatta allo scopo. Doveva rilassarsi, stancarsi, annoiarsi addirittura, se possibile: tutto, pur di dimenticare per un po' la sua innata predisposizione alla velocità, all'azione diretta, agli assalti alla baionetta. Le regie posate potevano servire anche a questo. Passò ben poco incuriosita tra i tavoli imbanditi di tutto punto, come se la corte stesse davvero per mettersi a tavola in una serata di festa. Tavoli rettangolari lunghissimi, imbalsamati in tovaglie di lino: una tavola ovale più piccola e ricca, riservata forse alla famiglia reale; i curatori della mostra avevano fatto in fondo un buon lavoro, tentando quella riproduzione puntuale del fasto sabaudo. Lunghe posate d'argento facevano corona a piatti finissimi di delicata e azzurra porcellana nordica, coronati tutti da una selva di bicchieri di cristalli luminosi, di Boemia o baccarat. Quasi inconsapevolmente si ritrovò a pensare non alle labbra curate e dipinte che quei bicchieri avevano baciato, ma alle innumerevoli mani gonfie e arrossate che quei bicchieri erano costrette a lavare, pulire, lucidare, spolverare. Sguattere vecchie a quattordici anni, arrossate dal sole e dalla fatica, che probabilmente finivano tutte irretite dal fascino arrogante del primo principino infoiato, o dalla vecchia lussuria d'un conte grinzoso nella pelle e nel cervello.
Orsolina si augurò che qualcuna di quelle sguattere fosse riuscita a scampare a quel lurido e banale destino; sperò che almeno una, magari proprio quella che per ultima lavò quel calice azzurrino che adesso lei teneva in mano, fosse riuscita ad incantare un garzone o un giovane stalliere, e che con lui fosse fuggita. Magari rubando un superbo cavallo arabo dalle regali stalle, correndo in due sulla stessa sella, attraverso i confini e le Alpi. Per vivere da poveri, ma liberi, almeno i due o i tre anni che Amore di solito concede alle giovani coppie, prima di morire ed eclissarsi. Due o tre anni di miseria e fame, ma anche di passione e di rivoluzionaria boheme. Sempre meglio delle carezze volgari e arroganti di un re, che arrivano sempre a tradimento, assai più volgari del volgo, quando hai la schiena piegata e dolorante su un mastello pieno di nobili panni sporchi.
Inseguendo la sua sguattera di fine Ottocento, la mente di Orsolina aveva tralasciato il controllo del cortile, il vialetto ghiaioso di fronte alla porta principale, luogo dell'appuntamento. E ritornando di corsa in questo secolo con la testa e in questo luogo con gli occhi, vide che lui era già là. Alto e fermo come un cipresso indifferente.
Rimise di corsa il calice sul tavolo, e corse fuori, verso la porta. I tacchi alti adesso sembravano graffiare la ghiaia, e Orsolina si sentì di nuovo ansiosa e affannata, mentre correva per gli ultimi metri. Era un po' invecchiato, le sembrava. Solo un po'. Era vestito, come sempre, divinamente male: un vecchio completo color carta di zucchero, ormai liso, era incongruamente coperto da una sahariana beige nuova, ma di poco prezzo. Non rinunciava mai alla sahariana, salvo durante i tre mesi più freddi dell'anno, quando ripiegava su un eskimo verde, ancora più orripilante, agli occhi di Orsolina. Si rammentò persino di avergliene chiesto la ragione, una volta: "Possibile che tu debba portarti sempre addosso una sahariana o un eskimo, per la miseria? Non sono cose facili, da abbinare con il resto dei vestiti, non trovi?". E ricordava ancora la risposta, seria e pacata, sembra ombra di ironia: "Hanno tasche grandi. Io ho sempre bisogno di grandi tasche quadrate".
Quando finalmente lo raggiunse, gli riservò un sorriso che era una liberazione. Gli sussurrò un "ciao" sommesso e sentito, e stava già per alzarsi sulla punta dei piedi per sfiorargli le guance con un bacio, quando si ricordò che le aveva proibito di farlo, tempo addietro. Ricadde sui talloni, riprese fiato.
- Grazie di essere venuto. Grazie davvero. -
L'uomo quasi sorrise. La sua bocca sembrava incapace di sorrisi, ma l'impercettibile increspatura delle labbra era probabilmente un sorriso. Non durò più di un istante, comunque.
- Chi sa che sei qui? Ti ho raccomandato prudenza, Lupa. -
- Nessuno, sta tranquillo. Nessuno, assolutamente nessuno. Mio marito è al lavoro, e io sono scappata dal mio appena possibile. Il cellulare l'ho spento che ero ancora in centro a Torino. -
L'uomo annuì appena, si infilò una mano in tasca e ne estrasse una pipa già carica. La accese con un solo fiammifero da cucina, e parlò quasi distrattamente, mentre rimirava la facciata dello Juvarra.
- Non è più un gioco, Lupa. Non lo è mai stato, anzi. Ma adesso i rischi sono davvero altissimi. Un piccolo errore, e andremo incontro alla nostra waterloo. Devi essere prudente, prudentissima. Ricordalo. -
Soffiò del fumo dolce e denso, e guardò in tralice Orsolina. Raccolse il suo veloce cenno d'assenso, e proseguì.
- Regola numero uno: non sottovalutare mai tuo marito. So per certo che Marcon lo ha ufficialmente scaricato, ma se conosco il commissario, probabilmente la sceneggiata del non-interessarti-più-di questa-storia è solo uno specchietto per le allodole. Marcon non è scemo e, soprattutto, non è un bieco razionalista che scoppia a ridere non appena sente puzza di esoterismo. E' pericoloso proprio perché ha pazienza, si stupisce difficilmente, e se trova un mistero tende a trovarne una causa razionale, senza però scartare a priori tutto quello che non capisce. Ha un ufficio pieno di anticaglie, sembra più il retrobottega d'un robivecchi che un ufficio di commissariato: ma questo non fa altro che deporre a favore della sua intelligenza. E sa di aver bisogno di tuo marito, in questa storia.
Ma è tuo marito la chiave, Lupa. E' lui il cane che può raggiungere per primo la preda. Credi che abbia sospetti su di te? -
- Ma no, cosa dici? Mi adora, stravede per me. Non penserebbe mai che io possa... -
L'uomo la interruppe:
- Regola numero due: non essere mai troppo sicura di te e degli altri. E ricordati la regola numero uno. Tuo marito non ha l'esperienza di Marcon, ma riesce a vedere il mondo come fosse ogni giorno nuovo di zecca. Sa stupirsi. E questa è una dote assai invidiabile. E' facile disincantare i cinici, semplice accendere gli iracondi, facilissimo scandalizzare i vandeani, ovvio sobillare i rivoluzionari. Ma è quasi impossibile accecare i puri di cuore. -
- Che devo fare, allora? Mi stai spaventando... -
- Nulla, per ora. Vivi la tua vita normale, Lupa. Lavora, mangia, divertiti, fai l'amore con tuo marito, guarda la televisione. Non fare nulla di diverso da quello che farebbe una normale donna di questo secolo. Vivi da Orsolina, lascia che Lupa dorma, per un po'. -
Poi si voltò improvvisamente, e piantò gli iridi grigi negli occhi di Orsolina.
- Ma non dimenticare di essere Lupa. Controlla la tua mail una volta al giorno, ma solo da webmail, e sempre da pc diversi. Pulisci le tue tracce informatiche, e non dimenticare che tuo marito è un segugio specializzato proprio in questo tipo di piste. Mi farò vivo quando avrò bisogno di te. E quando avrò bisogno di te, dovrai essere pronta e veloce. -
Orsolina annuì per l'ennesima volta.
- Solo due regole? Da che mondo è mondo il numero magico è il tre... -
- La terza regola è la più facile da ricordare, anche se non sempre è facile seguirla: - gli occhi grigi avevano quasi un accenno di tenerezza, adesso - Regola numero tre: non farti ammazzare.