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Giovedì briscola

Capitolo sedici, di Paolo Monterotti

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Alla fine degli anni cinquanta, la penisola italiana era in preda alla scossa tellurica dell'improvviso boom economico, primo della lunga serie di autoctoni miracoli che avrebbe, da lì in poi, caratterizzato il destino di quella parte di mondo; un bituminoso abbraccio di strade sempre più nuove e veloci, che univano i punti più remoti del paese, si faceva di giorno in giorno più capillare e asfissiante, e si affollava in maniera vertiginosamente crescente di fiammanti 600 e Lambrette acquistate a suon di pesanti sacrifici e spropositate quantità di cambiali; enormi masse abbandonavano le diseredate campagne del meridione per tentare la sorte nelle più ricche terre del nord, alla ricerca disperata di quel pizzico di benessere a cui sentivano di avere ormai diritto, e al quale non erano più disposte a rinunciare.
Ignari delle tensioni sociali che si andavano creando attorno a loro, i fratelli de Felicis spendevano con leggerezza i giorni dorati della loro agiata fanciullezza, provando al più una malcelata insofferenza per quella torma di gente, povera, tormentata e maleodorante, che intravedevano solo dal finestrino della lussuosa automobile, con tanto di autista in livrea, che li conduceva dalla sontuosa magione di famiglia all'esclusivo istituto dove sussiegosi religiosi impartivano loro una più che aristocratica educazione.
Infatti, dove fino a poco tempo prima la strada si snodava sinuosa nel mezzo di una campagna pressoché incontaminata, cominciavano a spuntare, simili a giganteschi funghi velenosi, enormi palazzoni grigi che sottraevano la vista dell'orizzonte e che, nella fantasia del piccolo Alfio, erano il parto di una specie di formiche spaziali dalle dimensioni titaniche, avanguardia di una mostruosa invasione extraterrestre. Ma la sterminata fila di biancheria stesa ad asciugare alle finestre scacciava questa illusione, rivelando che a popolare quegli inumani manufatti era la fascia più debole della moderna società industriale terrestre.

- Immigrati! Terroni. Saranno la rovina della nostra società. Vengono qui con la scusa di cercar lavoro e portano soltanto sporcizia, malattie e delinquenza. Certo, vengono da situazioni difficili, ma quel che dico io è che, se bisogna aiutarli, si deve farlo a casa loro, portando fabbriche e lavoro nel Meridione. Ah, queste fesserie dell'Italia Unita prima e della repubblica poi hanno veramente rovinato tutto. Al tempo di mio nonno, invece...
Quante volte Alfio aveva sentito il padre, col collo che pulsava come quello di un batrace, tuonare contro quella "sudicia invasione democratica e demografica", minacciando di far valere le sue conoscenze politiche per risolvere definitivamente la questione... eppure quello strano, misterioso mondo di miseria e di stracci, che tanta apprensione causava nel suo altrimenti nobile e compassato genitore, lo incuriosiva e risvegliava la sua fantasia, facendola galoppare. Non osando farlo col padre, per non vederlo dare in escandescenze, tempestava di domande assurde il fratello maggiore: perché vivevano ammassati in quegli squallidi palazzi simili a colonie di insetti? Non poteva trattarsi di uomini-termite di Marte venuti a colonizzare la terra? Del resto il padre diceva sempre che erano dei "maledetti rossi", lo stesso colore di quel pianeta! O forse venivano da Venere, pianeta più vicino al Sole, come suggerivano i loro capelli e le loro carnagioni scure? Cosa volevano? Erano ostili o volevano fare amicizia con i terrestri? C'erano i nobili anche da loro?
Vittorio Emanuele rispondeva a quelle strampalate domande inventando risposte ancor più inverosimili, creando per le ingenue orecchie del fratello un universo fantastico in cui napoletani e baresi erano alieni provenienti da pianeti lontanissimi, che ruotavano intorno a Soli a noi ignoti, e viaggiavano freneticamente attraverso il cosmo, alla costante ricerca di nuovi mondi da invadere e colonizzare, seguendo un loro oscuro disegno di dominio universale. Parecchi anni dopo, adottando lo pseudonimo di Vittorio Ismaele (in omaggio a Melville), avrebbe raccolto quelle fantasie in un romanzo che, nei sui sogni, era destinato a diventare il primo bestseller italiano di fantascienza comica, ma che fu rifiutato da tutti gli editori dell'ex-regno in quanto unanimemente riconosciuto come "inadatto alla pubblicazione", "scopiazzatura becera e ottusa della Guida Galattica per Autostoppisti" e "indegno libello razzista e classista". Si narra, ma anche questa potrebbe essere una fantasia di Vittorio, che un giovanissimo e ancora sconosciuto Lino Banfi, dopo averne letto una riduzione per il grande schermo, fosse caduto preda di un irrefrenabile accesso d'ira, riuscendo a placarlo solo dopo averne stracciato in mille pezzi ogni singolo foglio al grido di - Fuori l'autore! - sotto l'attonito sguardo dell'agente che gli aveva incautamente proposto il ruolo di capo delle forze galattiche pugliesi.
Il piccolo Alfio invece, già impregnato di quella serena dabbenaggine che avrebbe contraddistinto il suo incedere di adulto, non perdeva una sola sillaba di tutte quelle fanfaluche, le faceva sue, le elaborava aggiungendo nuovi particolari e nuove invenzioni, pregustando il momento in cui sarebbe finalmente entrato in contatto con tutte quelle aliene civiltà.

L'occasione per appagare la sua sete di esplorazione e di conoscenza giunse quando i genitori gli regalarono, per il suo decimo compleanno, una splendida bici da corsa rosso fiammante, con la quale poteva finalmente sfrecciare verso qualunque luogo desiderasse, a patto che questo si trovasse, tassativamente, entro il perimetro della vasta tenuta di famiglia.
Per Alfio iniziò un intenso periodo di esplorazioni alla ricerca di tracce di vita aliena nel parco. Strano a dirsi, le sue ricerche si rivelarono infruttuose, finché il fratello maggiore non decise di aiutarlo nei suoi sforzi. Per giorni e giorni i due fratelli esplorarono ogni singolo metro quadrato della vasta proprietà di famiglia, prendendo nota di ogni schiacciatura dell'erba che apparisse sospetta al loro sguardo indagatore, raccogliendo frammenti metallici che potevano essere stati parti di manufatti non terrestri, tendendo l'orecchio a ogni rumore apparentemente anomalo.
Poi, finalmente, Vittorio comunicò ad Alfio di aver elaborato una semplice strategia che gli avrebbe permesso di osservare da vicino, senza venire notati e senza correre alcun pericolo, quelli che per lui erano invasori provenienti dallo spazio profondo, forse da un'altra galassia, dotati della capacità di rendersi invisibili alla luce del sole. Assodato che si rendevano invisibili assorbendo i raggi del sole, a rigor di logica (sic!) avrebbero dovuto emanare almeno un tenue alone di luce durante la notte. Il piano era quello di appostarsi, nottetempo, nel canneto sulla riva opposta dello stagno che si trovava nel bel mezzo della tenuta, dove sembravano convergere tutte le tracce lasciate dagli extraterrestri, e attendere pazientemente che gli intrusi rivelassero la propria presenza. A sera cenarono diligentemente con la famiglia e, quando fu il momento, si recarono nella loro camera, dissero le loro brave preghiere e si coricarono. Attesero con impazienza che in casa si spegnesse l'ultimo lume e che non echeggiasse più altro suono se non lo sporadico cigolio di un tarlo gourmet, che degustava sapientemente le antiche travi del soffitto; poi silenziosamente si alzarono, si vestirono e con passo felpato andarono a inforcare le loro biciclette, con le quali svanirono nella notte, pedalando a luci spente come congiurati, confidando solo nel chiaro di luna e nei loro giovani occhi.

Giunti nel punto in cui avevano deciso di appostarsi, Vittorio disse che probabilmente sarebbe stato più saggio dividersi, in modo da allargare l'area che potevano sorvegliare. Lui si sarebbe acquattato nei folti cespugli che crescevano al limitare del boschetto a qualche decina di metri dalla riva, mentre Alfio avrebbe dovuto immergersi in acqua e occultarsi tra le canne. Il primo che avesse visto qualcosa avrebbe avvisato l'altro emettendo il verso del cuculo. Alfio ebbe da ridire sulla distribuzione dei posti di guardia e Vittorio, pur potendosi arrogare il diritto di scelta in quanto primogenito, propose magnanimamente di lasciar decidere alla sorte: avrebbero fatto una rapida sfida a pari e dispari, e il vincitore avrebbe conquistato la postazione di guardia all'asciutto. In onore dello scopo della loro missione, avrebbero giocato secondo le regole che Vittorio diceva di aver appreso dal retro di una figurina Liebig della serie "Il Sistema Solare" e che venivano praticate nelle bettole di Plutone: alla somma delle dita dei giocatori si aggiungeva il numero quattro e il risultato veniva moltiplicato per due. A quanto pare i plutoniani erano degli annoiati esseri umanoidi, dotati di sole due dita per mano, e avevano escogitato questo espediente per mettere più sugo nella competizioni che si tenevano durante il lungo e tetro inverno sul loro pianeta natale.
Vittorio prese il pari, Alfio il dispari, il primo calò tre e il secondo quattro.
- Pronti? Via! Quattro e tre uguale sette. Più quattro undici, per due ventidue. Ventidue, pari, ho vinto io.
- Ma non arriviamo a tre?
- Va bene, uno a zero per me. Pari!
- Dispari!
- Pronti? Via! Cinque e cinque dieci. Più quattro quattordici, per due ventotto. Ancora pari. Due a zero per me.
Alfio fu attraversato dal vago sentore che qualcosa non stesse andando esattamente per il verso giusto e accennò a una timida protesta, ma Vittorio fu rapido nel prevenirlo.
- Se non sei convinto, per la prossima mano cambiamo, io sarò il dispari e tu il pari.
- Va bene - rispose Alfio - Pronti? Via! - e rapido calò un due, convinto di avere il punto in tasca.
Con fare ghignante Vittorio calò un pugno chiuso da cui, beffardo, spuntava il medio piegato a metà.
- Due più mezzo fa due e mezzo, più quattro e arriviamo a sei e mezzo, moltiplichiamo per due e viene tredici. Dispari! Ho vinto e vado nei cespugli. Buon bagno. - E si dileguò nell'oscurità.

La fuga all'inglese del fratello e un febbrile quanto tardivo ripasso delle proprie nozioni di matematica convinsero Alfio di essere stato vittima di un raggiro, ma il terrore di venire sorpreso dagli alieni mentre era solo in quel luogo buio fu più forte della rabbia, così si rassegnò a togliersi i vestiti, che nascose sotto alcune pietre, e a entrare con riluttanza nella gelida acqua dello stagno per appostarsi nel canneto. Era nella sua scomoda e umida postazione da una decina di minuti quando udì il fratello lanciare il segnale convenuto. Immediatamente il sangue nelle vene gli si fece di ghiaccio, e per qualche attimo non gli riuscì di prender fiato. Poi, con il cuore che batteva all'impazzata e rimbombava nelle tempie come fosse un tamburo di guerra, osò scrutare attraverso l'intrico di canne verso l'oscurità della riva. Sulle prime non vide nulla, poi gli parve di cogliere un impercettibile movimento dell'erba sulla sommità di una collinetta antistante: si fece inequivocabilmente più distinto, e poi... e poi venne la fine del mondo! Un rumore assordante, simile al rabbioso ruggito di una enorme bestia ferita a morte, esplose improvvisamente dalla collina, mentre una abbacinante lama di luce squarciava l'oscurità della notte, pungendo come una pioggia di spilli gli occhi dilatati di Alfio. Accecato in pari misura dalla luce e dal terrore, Alfio non ebbe bisogno di ulteriori prove delle attività extraterrestri che si svolgevano proprio a casa sua: se ne dette istantaneamente per convinto e, nel breve volgere di un battito di ciglia, schizzò come un razzo tra le canne e corse via lungo la riva, inciampò nella propria bici e d'istinto la inforcò per fuggire a rotta di collo verso casa, dimentico sia del fratello che dei propri vestiti.
Il novello, involontario, emulo di Lady Godiva percorse sul suo cavallo d'acciaio l'intera distanza che separava lo stagno dalla residenza, senza mai guardarsi alle spalle e senza rendersi conto di aver di fatto inventato uno sport di protesta, il ciclonudismo, che avrebbe fatto non pochi proseliti qualche decennio dopo.
Giunse a casa spossato e madido di sudore, e nonostante sbuffasse come un mantice, nessuno parve udirlo; gli riuscì così di raggiungere il proprio letto senza incontrare anima viva.

Al mattino si svegliò con una febbre da cavallo. Venne chiamato con urgenza il professor Vercingetorige, il medico di famiglia, che gli diagnosticò una potente forma influenzale, dovuta probabilmente a un colpo di freddo e che per fortuna non apparteneva al ceppo della terribile asiatica che imperversava a quei tempi. Prescrisse al giovane paziente dei potenti antibiotici e tranquillizzò i genitori anche riguardo i suoi deliranti e sconnessi resoconti sui fantomatici esseri di luce che si aggiravano nel parco: con una febbre come quella era più normale che avesse avuto qualche allucinazione.
Vittorio, dal canto suo, si guardò bene dall'informare il fratello, o chiunque, altro della burla che aveva architettato tanto bene da sfuggirgli di mano, ma anzi, seguendo quella vena di pietà per i vinti inaugurata da Brenno, per anni lo tormentò rinfacciandogli di averlo vilmente abbandonato nelle mani degli alieni. Alieni che a suo dire erano animati da intenzioni benevole e pacifiche, ma che la condotta irrazionale di Alfio aveva offeso e spinto a tornarsene sul lontano pianeta da cui erano partiti, carichi di doni, per portare pace e benessere alla gente della Terra.
E fu con questo peso sulla coscienza che il giovane Alfio andò incontro alla propria adolescenza.

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Pubblicato il 18 novembre 2009.

Parolata.it è a cura di Carlo Cinato.
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