Era schizzato fuori dalla sala con il cuore in tumulto, fendendo la calca che cercava di entrare per vedere l'ultimo capolavoro di Francis Ford Coppola. Nel caos del foyer qualcuno gli aveva chiesto, come sempre accade, un parere sul film appena visto e Aristide aveva risposto, frettoloso e incomprensibile - The end!. - Poi era riuscito a guadagnare l'uscita ed a dileguarsi nella via, quasi correndo, alla ricerca di un telefono.
Febbrilmente aveva composto il numero sperando di avere abbastanza dollari sul conto per una chiamata intercontinentale, a Berlino.
Silenzio. Solo rumori indefinibili, più il suo affanno che non si chetava.
Libero.
- Hallo? – una voce nota, lontana, distratta.
- Sono io, Mutter! Ascolt...
- Ma ccccaaaaro, e come stai? Succede così di rado che tu mi chiaaaami ed io qui mi annoio così taannnto...
- Mutter, ti prego - aveva cercato di interromperla, ma con sua madre non funzionava mai.
- E allora dimmi, tesoooro, di che coosa hai bisognooo? Perché se mi chiami avrai certamente bisogno di qualcosa. Non ti sento mai!
- Coppola. Sono andato al cinema. C'era una canzone.
- Allora, caaaaro? che vorr...
- Voglio che mi ascolti tu, per una volta - fu lui ad interromperla, la voce tremante - Sono andato al cinema e c'era una canzone. Le parole dicevano:
This is the end, my only friend
The end of laughter and soft life
The end of nights we tried to die”
Capisci adesso? Capisci? È UNA CANZONE!
Nessuna risposta.
Riprese, in preda all'orgasmo
- Le parole che Papà ci ha lasciato prima di... di... insomma, di andarsene, sono diventate il testo di una canzone. Allora, forse...
Si interruppe, senza sapere come continuare.
- Ma che vuoi dire? - Gli rispose la donna - che l'ha scritta lui?
- Non so, ma magari potremmo risalire a lui attraverso... ascolta, sui titoli di coda c'era scritto...
- Lascia perdere, caro, lascia perdere.
- "The End" è il titolo, ed è stata scritta...
- Quindici anni fa.
- Che?
- Quindici anni fa. Da Jim Morrison dei Doors. Quindi tuo padre non c'entra. Quindici anni fa era qui con me a, Berlino. E con te.
- Ma...
- No, con quella canzone tuo padre non c'entra, né con Jim Morrison o Andy Wharol o tutta la ghenga della beat generation, della Pop Art, dell'Hip hop, quegli americani sottosviluppati e pederasti. No, tuo padre era ben altro!
- Ma allora tu...
- Io?
- Tu sapevi! Sapevi che quella poesia, che le uniche tracce che avevamo per ritrovarlo non erano di suo pugno? Che le aveva scritte questo Morrison? E mi hai lasciato credere...
- Senti, certo che lo sapevo. E ti ho lasciato credere quello che hai voluto credere, visto che alla verità non hai mai voluto, appunto, credere.
- Ma quale verità?! Ancora quella faccenda degli alieni? Io dovrei credere che mio padre è stato rapito dagli UFO? A questo dovrei credere? A questa verità?
Viaggiare non era mai stato difficile, per Aristide; anzi, spesso gli riusciva molto più complicato fermarsi in un posto per qualche tempo piuttosto che partirne alla ricerca di qualcosa d'altro. Molte volte per lui il viaggio era la maniera di liberarsi da un luogo che, dapprima promettente, o almeno sopportabile, gli era in un modo o nell'altro diventato inviso.
Si autoconvinceva a volte che il motore di questa continua inquietudine potesse essere il suo sangue inca, un retaggio di eterno esule da una patria scomparsa da secoli, destinato a non trovare pace in nessun luogo. E gli piaceva credere che per suo padre potesse essere lo stesso.
L'Europa aveva iniziato a stargli stretta in quel modo molto presto, appena finita l'adolescenza ed ora, dopo anni, la stessa sensazione come di asfissia, la provava per il nord America. Al punto che aveva ormai quasi deciso di tornare in Canada e di lì trovare il modo di trasferirsi in Giappone. I suoi amici Jap di Vancouver lo avrebbero aiutato di certo a trovare un passaggio, un posto dove sbarcare e qualcosa da fare per sopravvivere, all'inizio. Ringraziò il cielo di non averlo ancora fatto. Di essere rimasto a Miami fino a quel giorno. Di essere stato in quel cinema.
Aristide era uscito dalla cabina senza replicare alla madre, senza nemmeno pensare a riagganciare il telefono, che rimase dondolante ad esaurire i suoi crediti.
Girò a caso per le vie, in preda a conati di dolore sordo, con una determinazione che man mano gli cresceva dentro. Sarebbe andato avanti, questa volta. Non si sarebbe più accontentato delle blande frasi di sua madre.
Da dove partire? Era una domanda che non era abituato a porsi. Nella sua vita di viaggi, più spesso di vagabondaggi, gli capitava raramente persino di preoccuparsi del luogo di destinazione, figurarsi di quello di partenza.
Bah! Se a sua madre non importava di ritrovare suo padre, pazienza. Lo avrebbe fatto lui. E sarebbe partito proprio da quelle parole, le "parole di un altro" che per anni aveva creduto essere di suo padre. Sarebbe partito da quell'altro, da James Douglas Morrison.
Il che implicava che la prima tappa sarebbe stata un negozio di dischi, naturalmente.
La seconda tappa, altrettanto naturalmente, fu Los Angeles. Aristide decise di fare il viaggio dalla Florida alla California in autostop, come un autentico beatnik degli anni '60. Unica differenza il walkman che gli ripeteva incessantemente nelle orecchie tutti i dischi dei Doors, mentre leggeva e rileggeva l'unica biografia di Jim Morrison disponibile, "No one here gets out alive", di Danny Surgeman.
E aveva scoperto tutto il testo della canzone che lo aveva sconvolto: "The End".
C'era ben altro, oltre alle parole di addio per un amore finito, davvero ben altro.
This is the end
Beautiful friend
This is the end
My only friend, the end
Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end
No safety or surprise, the end
Ill never look into your eyes... again
The killer awoke before dawn, he put his boots on
He took a face from the ancient gallery
And he walked on down the hall
He went into the room where his sister lived, and... then he
Paid a visit to his brother, and then he
He walked on down the hall, and
And he came to a door... and he looked inside
Father, yes son, I want to kill you
Mother... I want to... fuck you
Scoperse che Morrison non era stato soltanto una rockstar, ma anche e soprattutto un uomo di cultura, un poeta, addirittura uno sciamano della generazione che si affacciava alla vita tra gli anni ‘60 e '70. Quelle parole che lo avevano reso famoso venivano da un silenzio di secoli, dalla tragedia greca, da Sofocle. Capì che un artista come suo padre Karl, così affascinato da amore, droghe e morte esattamente come Jim non poteva non averlo seguito in qualche modo, da vicino o da lontano. Ed il fatto che avesse scelto di usare proprio quel testo per dire addio a lui e sua madre, certamente un significato l'aveva.
Il viaggio di Aristide attraverso l'America divenne così un viaggio attraverso il tempo, il costume, la cultura di un'altra generazione, attraverso un mondo scomparso in fretta ma che gli pareva ancora raggiungibile, verso un'idea diversa di arte, di vita, di America... verso un poeta nuovo ma antico. Verso suo padre, forse, anche.
Giunto a L.A., sapeva ormai benissimo dove andare, chi cercare, che cosa vedere.
Quella sera aveva tolte le scarpe per sentire la sabbia tra le dita dei piedi, come immaginava avesse fatto Jim vent'anni prima sulla stessa spiaggia a Venice. Si era al tramonto, ed il sole che si tuffava al rallentatore nell'oceano di fronte a lui gli trasmetteva una speciale malinconia, come un senso di perdita per qualcosa che non si è mai posseduto né capito veramente. Qualcosa come una patria solo sognata, un'epoca soltanto sfiorata, un amore appena abbozzato, un genitore a malapena intravisto.
La ghenga della beat generation, aveva detto mamma Kristel, quei pederasti americani, aveva detto, ma più cose scopriva su di loro, più Aristide se ne sentiva colpito, stupito, inesorabilmente attratto. Come da quel Jim Morrison che della beat generation era stato uno dei profeti, dei poeti, degli sciamani, quel Jim Morrison del quale ormai conosceva a memoria tutta la musica, ma soprattutto tutti i testi, le poesie, gli scritti.
Aveva anche creduto di aver letto anche tutte le interviste, ma almeno una fino a quel giorno gli era sfuggita. Per lui, la più importante.
Si trovava lì, in un numero di "Rolling Stone", versione francese, del 1971. Glielo aveva procurato una specie di rigattiere nero del sunset strip, che affermava di aver conosciuto Morrison e un sacco di altri personaggi dell'epoca d'oro del "big beat". Gli aveva chiesto se sapesse leggere il francese e sì, Aristide gli aveva detto che poteva cercargli riviste in francese, tedesco, spagnolo e persino in italiano. Almeno questo i suoi due atipici genitori gli avevano trasmesso: l'amore e la conoscenza delle lingue.
Richiuse di colpo la vecchia rivista che teneva aperta tra le mani, poi la riaprì lentamente, esitando tra timore e speranza. La foto era ancora là: Jim, sbarbato ma gonfio, sorrideva davanti a un quadro. Un suo raro sorriso. Un quadro che Aristide conosceva bene. Dall'aspetto di Morrison nella foto Aristide capì che doveva essere a Parigi, poco prima della sua morte. Scorse avidamente l'intervista, in tutto e per tutto simile alle mille che già aveva lette, quasi imparate a memoria, negli ultimi mesi. Fino all'inizio della seconda pagina, dove Jim diceva: - Voglio dirti una cosa perché mi piaci, una cosa che non ho ancora raccontato in giro. Hai presente "The Spy"? Tutti pensano che l'abbia scritta pensando a Pam, sai che a me piaceva guardargliela da vicino, infilare lo sguardo dentro di lei...
Nel riquadro a fianco dell'intervista c'era il testo della canzone di cui stavano parlando:
I'm a spy in the house of love
I know the dream, that you're dreamin' of
I know the word that you long to hear
I know your deepest, secret fear
I know everything Everything you do
Everywhere you go Everyone you know
I'm a spy, I can see what you do
And I know.
- Sì tutti pensano che la "casa dell'amore" di cui parli sia la ehm... "cosa" di tua moglie Pamela.
- Invece no.
- No?
- No, l'ho scritta pensando a questa donna qui, quella del quadro, si chiama Kristel ed è la moglie del pittore. Guarda questo dipinto, guarda le profondità che accenna, quelle carni, quelle ampiezze, quegli spazi, quella vulva che pare volerci ad un tempo inghiottire e baciare, afferrarci come un guanto umido. Questa donna, questo quadro sono tutto quello che vorrei descrivere con la mia poesia, ora.
- Ma chi è il pittore, è il tuo amico Breitenbach?
- Macché, Breitenbach è solo uno che ci prova, vorrei che mi facesse un quadro per un mio progetto, ma questo è Karl Hualpa, sta a Berlino, un vero, grande artista. Dovresti intervistarlo, bellezza. Dovresti. L'intervista stessa è una forma d'arte. La morte, sai? la morte. C'è la morte e la vita, qui dentro in questo quadro. E sai che mi ha detto Karl? "La morte viene una volta sola, giusto? Non voglio mancare all'appuntamento".
- Mancare all'appuntamento, eh?
- Sì, non si può mancare, voglio sentirne il sapore, voglio ascoltarla, voglio annusarla. Amico non lo so. Potrebbe essere l'esperienza che ti fornisce il pezzo mancante del mosaico.
- E la vita?
- La vita è come il mare, una vagina che può essere penetrata in ogni punto. Ma ora Karl verrà a Parigi, voglio parlargli, lavorare con lui. La musica può aspettare, adesso. Abbiamo finito un album, "L.A. Woman", non so se faremo mai un tour per quel disco. Voglio scrivere, voglio guardare, voglio vivere, ora.
Che altro poteva fare Aristide? Tre giorni dopo era a Parigi.
La Citroen nera era troppo, troppo veloce e Aristide aveva paura. Non avrebbe dovuto fidarsi, sarebbe dovuto scendere subito, appena sentito quel puzzo di alcool. Paura di morire, certo. Per la prima volta, proprio ora che era sulla strada giusta, sentiva di esserci quasi...
In volo aveva avuto un sacco di tempo per pensare, per dubitare, anche. Che cosa avrebbe fatto a Parigi? Cercato il gallerista di suo padre? E allora? E poi? Non poteva starsene dov'era e telefonargli? O andare da sua madre a Berlino e raccontarle tutto? Chi sperava di trovare, davvero suo padre Karl? In carne ed ossa?
E perché poi tutto questo seguendo le tracce di un poeta che aveva scritto una canzone che pareva una versione hippy dell'Edipo re?
Il pensiero lo tormentava. Suo padre li aveva lasciati con un addio che parlava di parricidio. Che significato potevano mai avere per lui e Kristel quelle frasi allucinate? Sua madre gli aveva mentito, certo, ma quanto gli aveva veramente nascosto? Forse c'era dell'altro, forse suo padre aveva una patologica paura di lui... Di morire vittima del proprio figlio. Forse Kristel sapeva di questa nevrosi e per ciò si era inventata quella storia ridicola degli alieni.
Ma invece forse Karl cercava solo delle parole di addio per loro, e aveva trovate quelle del suo amico Jim. Le parole di un altro.
Di chi sono le parole? Di chi le pronuncia o di chi le ascolta? Di chi le scrive o di chi le legge? Di chi le occulta tenendole per sé o di chi le ripete dividendole con tutti?
Aristide decise che le parole di "The End", parole già scritte migliaia di anni prima, non potevano appartenere solo a Jim, ma almeno anche a Karl, e forse, ora, erano diventate anche un po' sue.
Questo faceva sì che loro tre avessero qualcosa in comune, qualcosa di molto speciale: "The End", la fine. E proprio dalla fine ora sarebbe ripartito, appena atterrato a Parigi: dalla fine di Jim Morrison, sepolto al cimitero di Pere Lachaise.
Ma il tassista maledettamente ubriaco andava troppo forte. Almeno a 130 all'ora quando infilò il tunnel del Pont de l'Alma, e perse il controllo.
Il raggio traente lo sollevò appena in tempo. Sotto di lui udì il botto assordante dell'auto che si schiantava contro il tredicesimo pilone. Ma la luce tremolante del raggio lo sollevava, come fosse incorporeo, portandolo via dal disastro.
- Ecco, - pensava - ora entrerò in una lunga galleria, poi rivedrò tutta la vita passarmi davanti, poi arriverà l'Essere di Luce che mi condurrà con sé. Insomma, sono morto.
Si sbagliava: il raggio lo sollevava sempre più in alto, ma ora poteva vedere distintamente, guardando in su, una strana sagoma di metallo traslucido. Un aereo.
No, stava fermo sospeso in aria... Per quel che ne sapeva, nessun aereo poteva farlo. Guardò meglio: non aveva nemmeno ali o appendici aerodinamiche, e neanche qualcosa che potesse essere identificato come una qualche sorta di motore.
UN'ASTRONAVE!!!!!!
L'essere che lo avvicinò pareva uscito da un film di fantascienza. Gli occhi enormi, scuri, due sfere blu del colore dello spazio profondo, punteggiati di bianco come di tante, piccole stelle. Il corpo, esile, filiforme si notava a fatica. Aveva una bocca? Un apparato fonetico? Aristide non lo avrebbe detto.
Ma udì, udì distintamente quel che l'alieno gli disse e non lo scordò mai più: - Benvenuto, Aristide, io sono Melchit. Se vuoi, faremo un viaggio insieme. Ti porterò a casa mia e ti farò incontrare qualcuno a cui tieni.
- Se no? - rispose Aristide, ma nemmeno si rese conto di aver parlato
- Se no, non saprei. Forse dovrò riportarti su quel taxi all'istante in cui ti ho prelevato. Così moriresti nello scontro, ma...
- Tu mi hai salvato! Perché?
- Ti ho salvato? Può darsi: io in realtà ti ho portato qui da me nell'istante in cui la tua mente è giunta alle giuste conclusioni, o forse dovrei dire, alle giuste domande.
Aristide non sapeva più nulla, non pensava più nulla. - Va bene - disse - verrò con te.
L'aria era tersa sul pianeta di Melchit, e profumava come d'incenso. La luce rossastra, quella di un eterno tramonto, avvolgeva la spiaggia e lo sconfinato mare che avevano davanti. Melchit gli disse che il viaggio finiva qui: avrebbe dovuto aspettare un po', poi avrebbe capito.
Aristide ristette seduto sulla sabbia dorata a guardare l'alieno che si avviava verso il mare e piccoli passi avanza va fino ad immergersi, sprofondare, sparire.
Era solo, e si sentiva stanco. Non sapeva capire se tutto ciò era reale. La ricerca disperata di suo padre Karl gli pareva un evento di secoli addietro... eppure ancora provava quel conato di dolore nell'anima.
D'un tratto udì un rumore. Non si voltò. Il rumore continuava, era un suono come di passi, passi di piedi nudi sulla sabbia, che si avvicinavano a lui.
- Aristide! - lo chiamò una voce nota. Finalmente si voltò, vide e credette. Di fronte a lui stava, la folta chioma corvina, la camicia di lino bianca e i pantaloni di pelle nera, James Douglas Morrison, al secolo Jim Morrison e aveva quello stesso raro sorriso stampato sul volto.
Per ore ed ore, forse giorni, forse mesi, stettero insieme seduti sulla sabbia. Poi passeggiarono per quel lungomare infinito, senza mai provare stanchezza, fame o dolore, o desiderio. Jim gli raccontò di come, esattamente dieci anni terrestri prima, era stato trasportato lì da Melchit. Il quale gli aveva spiegato che non avrebbe mai più potuto portarlo sulla Terra, perché la sua morte era un fatto troppo noto ed acclarato.
Né Jim in realtà avrebbe voluto tornare, se non per realizzare un suo sogno. Di ciò una volta aveva fatto parola con Melchit e questi gli aveva promesso che un giorno gli avrebbe portato qualcuno che avrebbe potuto fare ritorno. Quel giorno, pare, era venuto e quel qualcuno, pare, era proprio lui, Aristide.
Ma solo se lo avesse voluto.
- Certo che voglio tornare sulla Terra, ma non per realizzare il tuo sogno, Jim, per realizzare il mio!
- E quale sarebbe, il tuo?
- Ritrovare mio padre, Karl Hualpa, che tu conoscevi bene!
- Ah, ma per quello non occorre andare da nessuna parte. - chiuse enigmatico Morrison. Poi si alzò e si avviò verso l'interno.
Aristide non poteva che seguirlo, ammirando il suo passo sensuale, il suo studiato ancheggiare che aveva fatto impazzire migliaia di ragazze e non pochi ragazzi.
Camminavano da qualche minuto quando lo vide all'orizzonte. Apparve come una iota in lontananza, tremolante nella luce di quel vespro senza confine, poi man mano che si avvicinava assunse contorni sempre meno indefiniti, sempre più umani: una testa, due braccia, due gambe, un torso. No, non era Melchit, né uno della sua razza.
Era un essere umano.
Un uomo.
Lo riconobbe, infine. Suo padre!
Vorrei sapervi descrivere l'abbraccio, i sentimenti, le parole che i due, padre e figlio, si scambiarono.
Vorrei sapervi dire quanto tempo stettero insieme, loro due, soli o con Jim.
Vorrei sapervi parlare di come si aprirono a vicenda le proprie anime tormentate per trovare conforto reciproco, aiuto, lenimento e nuova forza.
Vorrei sapervi illustrare il progetto, il sogno di Jim, di Karl e ora anche di Aristide, per portare nel mondo una voce nuova, che avrebbe ucciso il vecchio, le vecchie idee, le vecchie filosofie, le vecchie convenzioni, le vecchie religioni ed avrebbe creato una nuova era di primordiale, languida bellezza.
Ma il vostro cronista è debole, limitato, il suo verbo è povero, sciatto.
Allora vi dirò solo di come Aristide, dopo tre anni passati con loro, si sentì pronto a tornare a casa. E chiamò Melchit.
L'alieno gli si presentò, come sempre, uscendo dalle acque come un dio greco. E gli parlò.
- Sono molto felice della tua decisione, Aristide. Vedo in te una grande forza, una grande potere. Lo stesso di Jim. Porterai nel tuo mondo tutto ciò che hai capito qui. Sei veramente pronto? Potrai fermarti ancora, se lo vorrai.
- Sono pronto, Melchit, mio amico e mio Signore. Ti prego di riportarmi sulla Terra, in modo che io possa compiere la mia missione. Ti chiedo una sola cosa.
- Quale, amico mio?
- Di potere, laggiù, essere chiamato col tuo nome.
- Se lo vorrai, io certo non te lo impedirò. Sarò sempre con te, ti starò vicino, ti sarò di aiuto, quando agirai per il bene della tua missione e di pungolo, quando cederai all'accidia. Ti sorreggerò nelle difficoltà e renderò più sciolta la tua favella quando parlerai alle folle. Di tanto in tanto sarò in te, dentro di te, per poterti infondere tutta la mia forza. Ma anch'io, caro Aristide, vorrei chiederti una cosa in cambio.
- Tutto quello che potrò, te lo concederò
- Quando sarò in te, ti prego, fammi giocare qualche volta a quel gioco meraviglioso, quella parodia della vita e del cosmo, che gli umani chiamano Briscola!
Due mesi dopo che il taxi si era schiantato contro il tredicesimo pilone del tunnel del Pont de l'Alma, Aristide aprì gli occhi in un letto d'ospedale. Ed era Melchit.
Pubblicato il 27 maggio 2009.