Logo ParolataPubblicato su www.parolata.it

 

Giovedì briscola

Capitolo quattordici, di Piero Fabbri

Utili Divertenti Letterarie Sparse Novità

Torna al capitolo tredici

Era davvero tutto sbagliato, bastava guardarsi attorno. Bastava allungare lo sguardo appena oltre la riva, oltre il mare, anzi oltre il ghiaccio - visto l'Ottobre inoltrato - e tutto diventava evidente, chiaro; e sbagliato, appunto. Tutta la sua vita veniva riassunta dalla logica rovescia del paesaggio: di là, oltre il mare, a Oriente, c'era l'Occidente che occhieggiava stanco e sornione: rovesciato lo spazio, quindi, ma rovesciato anche il tempo. Il sole – pallido nel meriggiare, ma niente affatto assorto, a dire il vero - sorgeva su quella terra e la illuminava prima di arrivare a lui; eppure per quell'ovest ricco e dimentico era ancora il sole di ieri, e non la luce di oggi. Eppure i raggi erano gli stessi: la Terra rotolava stanca e antioraria, incurante delle linee convenzionali degli umani, e continuava ad offrire a quella vetusta radiazione la testa deserta di Alfio. Quando la luce arrivava era luce già vecchia, passata, ma solo per le illusioni degli umani calendari. Di là, dall'altra parte, i ricchi e potenti continuavano a voler essere anche più giovani, seppure d'un solo giorno. Così avevano stravolto lo spazio, scambiando l'est e l'ovest, riuscendo a cambiare di posto anche allo ieri e all'oggi. E sempre a loro favore.

Alfio calcia nervoso un sasso verso il mare, e il sasso rimbalza spocchioso tra ghiaia e ghiaccio, prima di trovare un varco liquido dove sprofondare; non raggiunge certo la linea di cambiamento di data, che divide, virtuosa e virtuale, lo stretto mare tra l'Asia e l'America. E allora Alfio alza il bavero e stringe la sciarpa, incassa il mento e sotterra il collo ancora più nelle spalle, mentre raggiunge la figura grigia che, appena più scura del paesaggio, lo ha sempre atteso e osservato, dieci metri più indietro.
- Andiamo via, Luigi.
- Sì, conte. Era ora che lo dicessi. Ormai fa troppo freddo a quest'ora; te l'ho detto già un sacco di volte, da settembre in avanti qui non si può stare troppo fermi all'aperto. Specie se si è terroni come noi.
Era uno strano equilibrio di confidenza e rispetto, quello che si era stabilito tra i due. Il conte Alfio Emanuele Maria de Felicis riusciva perfino a sorridere nel sentirsi chiamare terrone. Del resto lì, a poche centinaia di chilometri dal circolo polare artico, tutto il mondo era davvero terrone, inguaribilmente meridionale, per gli abitanti del luogo. Il suo cameriere era troppo rozzo per poter coniugare decentemente un colloquio usando la terza persona di cortesia; "lei" era parola da riservare alle femmine, e le femmine avevano un ruolo ben definito e semplice, nell'universo del suo aiutante. Quindi accettava il "tu", accettava il "terroni come noi", eppure non lasciava che lo chiamasse Alfio. "Conte" andava bene, benissimo. Aveva ormai compiuto cinquant'anni, e dopo il mezzo secolo di vita la forma ha quasi la stessa importanza del contenuto; ed essere conte in una repubblica significa non essere nulla di reale, niente di vero, di presente, ma solo un alibi della storia. Ricchezze e deferenze vecchie e immeritate, ossequi inutili e interessati, solo questo poteva aspettarsi; ma era esattamente ciò che si aspettava da sé stesso.
- Non hai capito, Luigi. Ho detto che andiamo via, e intendevo proprio via, lontano, partiamo. Ne ho abbastanza di questo posto.

Luigi gli stava camminando davanti, diretto verso la casa che non distava più di cinquecento metri dal porto. Aveva fretta di rientrare, per cacciare via il freddo dalle ossa. Pregustava già il solito rituale: il conte che si ritirava nella parte alta della casa, che del resto era la più bella di tutta Providenija, a leggere, scrivere, dormire, o quel che fosse; di certo, non sarebbe sceso di nuovo dabbasso prima di cena. E lui avrebbe avuto il tempo di togliersi il freddo dalle ossa, prima con il samovar che avrebbe chiesto a Ekaterina di scaldargli; poi con la vodka tiepida che avrebbe chiesto a Ekaterina di versargli, e infine proprio con Ekaterina, che avrebbe preso da solo, senza chiedere niente a nessuno, meno che mai a Ekaterina stessa. Ma adesso quella frase del vecchio rimbambito, che stava a significare? Andare via? Ma dove, quando, e perché?
- Conte, guarda che anche se il catamarano non è ancora arrivato, non significa mica per forza che è affondato, no? Ti pare il caso di partire adesso, con tutto quello che abbiamo in ballo? Non è meglio aspettare, che ne so, Natale, così possiamo prenderci una vacanza come si deve, al caldo magari nel deserto, magari! Tipo Las Vegas! Con caldo, carte, soldi e femmine, e poi...
- Non sto parlando di vacanza, Luigi. Ho detto basta, e se dico basta vuol dire basta. Sono stufo, non me ne frega niente di quanto abbiamo in ballo, dei catamarani, del mirtillo del Bajkal, del contrabbando di caviale e di tutta la fottuta organizzazione che mandiamo avanti da quasi quindici anni. È tempo di tornare a casa.

A casa. Ma di quale stramaledetta casa parlava, il vecchio rincoglionito? Aveva passato gli ultimi anni inchiodato dalla noia più nera, pomeriggi e sere rinchiuso in quel buco fuori dal mondo come un carcerato volontario, e adesso tutto questo fervore verso il ritorno a casa. Era forse l'Italia, Torino, la casa? Quella Torino dove s'erano conosciuti per sbaglio, una vita fa? Dieci, quindici anni sembrano proprio tanti, ma potevano non bastare a far sparire tracce e ricordi. Specie con un fratello come Giuseppe alle calcagna... non ne erano passati due dalla lettera che gli aveva spedito che quella che un avvocato avrebbe chiamato "felice congiuntura di revisione procedurale, riesame degli atti e misericordiosa emanazione di indulto" lo aveva rimesso in libertà. Alberto gli aveva pure scritto che Giuseppe non era più manco riconoscibile, ormai: barba, baffi, capelli lunghi e sopracciglia come piccole foreste, occhi senza colore e luce, e chili di muscoli dove prima c'era solo un normale, poco atletico, buon uomo. Aveva passato due anni in galera con il solo scopo di costruire col corpo uno strumento di vendetta, suo fratello Giuseppe. Glielo aveva detto Alberto, più con il tremito nella voce che con le parole che non sapeva usare al telefono; ma il tremito e le poche frasi avevano saputo ben disegnare il terrore, comunque. Le paure hanno linguaggi propri, e quando Alberto gli raccontò nella cornetta l'aspetto di Giuseppe, la schiena di Luigi fu percorsa da uno strano brivido diagonale, mai sentito prima in tutta la sua vita. E quando Alberto continuò a dirgli che Giuseppe lo cercava, chiedeva in giro, bussava a tutte le porte e tormentava ogni passante per chiedere notizie di lui, di Luigi Brienza, il brivido si ripeté tale e quale, dalla spalla sinistra al gluteo destro, solo un po' più intenso.
A casa, cristo? Di quale fottuta casa parlava, il vecchio?
Meglio Città del Capo, allora.
- Vuoi tornare in Sudafrica, conte? Anche se l'olandese è ancora incazzato con noi? Se tu mi lasciassi fare per una volta come dico, vedresti che l'olandese non ci romperebbe più le scatole. Avrebbe un gran rispetto delle scatole altrui, perché farei davvero una marmellatina delle sue, e...
- Niente Sudafrica, Luigi. Te l'ho detto, non ne voglio più sapere. Ho perso milioni in questa storia della triangolazione, ma se devo dire la verità non è neppure che la cosa mi dispiaccia troppo. È solo che non ne posso più del ghiaccio dello stretto di Bering, non ne posso più della Montagna della Tavola che chiude il paesaggio di Città del Capo, non ne posso più e basta. Torniamo a Torino, Luigi.

Ecco, l'aveva detto. Torino, cazzo. Dopo tutta la fatica fatta per scappare via, adesso il fottuto conte voleva tornare a Torino. Conte? Conte una sega! Aveva l'animo piccolo del contadino, altro che conte. Avrebbe dovuto fare collezione di zappe, non mettere su un contrabbando internazionale tra il Sudafrica, la Siberia e la Nuova Zelanda. Torino, cristo, Torino! E adesso, come avrebbe fatto?
- Da quand'è che lavori per me, Luigi?
Ecco, ci mancava solo l'amarcord, adesso.
- Dall'ottantacinque, conte. Ero arrivato a Torino da dodici ore, quando ci siamo incontrati per caso in un bar, tu hai offerto da bere a tutti perché avevi appena avuto un sacco di soldi, e tra un bicchiere e l'altro hai scoperto che non avevo un buco dove andare a dormire e m'hai assunto come galoppino.
- Fattorino, Luigi, fattorino. I galoppini sono una cosa diversa.
- Sicuro? Beh, comunque era il 1985. Ero appena venuto al nord, e poi tu hai subito deciso che saremmo dovuti partire tutti per Auckland o Città del Capo. Io credevo che queste Capocittà e Occlà fossero paesini della cintura torinese, se avessi saputo che invece erano dov'erano, col cavolo che sarei venuto con te, conte.

Alfio si concesse un altro sorriso triste. Era davvero certo che Luigi non mentisse, in merito. Tutto il primo viaggio aereo verso Wellington lo aveva passato oscillando l'occhio lucido tra il finestrino e le gambe delle hostess, e comunque non si dava pace della durata del viaggio. Però era stato veramente prezioso, sempre. Da una parte o l'altra del mondo, riusciva sempre a trovare il suo spazio. Ovunque, in Africa e in Oceania o altrove, riusciva a trovare una donna ad aprirgli casa e vestaglia nel giro d'una settimana, a sapere come era organizzata la vita nel quartiere, e poco contava che fossero europei, maori o boscimani, i vicini di casa. Nonostante quello che diceva, sarebbe venuto lo stesso, eccome, a "Occlà" e a "Capocittà". Così come era poi venuto qui a "Provvidenza", così come non vedeva l'ora di vedere Las Vegas.
-Ottantacinque, eh? Sono davvero un bel po' di anni che giriamo il mondo, allora, no? Non sei contento di tornare a Torino?
Come no, pensava Luigi. Contentissimo.
- Ma conte, e gli affari? Davvero te ne vuoi fregare di tutto? Guarda che non è solo l'olandese di Città del Capo, sono tutti gli altri anche! I tartari del Bajkal, gente che prima ti spella e poi ti chiede indietro i soldi che gli devi; la banda dei neozelandesi, che non vedono l'ora di avere qualcun altro da frollare, dopo aver finito coi maori; e, secondo me, non c'è un solo farabutto degli equipaggi dei catamarani che non sarebbe contentissimo di poterti friggere le palle rivendersele come portachiavi...
Alfio continuava diritto, senza guardare Luigi. Erano quasi arrivati a casa.
- Luigi, guarda che quando ho messo in piedi tutta questa avventura non avevo intenzione di finire come sono finito. Il mirtillo del Bajkal era destinato alle industrie farmaceutiche di Johannesburg, è molto richiesto per le malattie della rètina. E pensavo che fossi riuscito a chiudere il triangolo come fece a suo tempo la Compagnia delle Indie, che interscambiava abilmente tè, oppio e schiavi, sarei davvero diventato una potenza. Poi è finita come sai, che abbiamo dovuto appoggiarci ai tagliagole di questo buco dimenticato da Dio solo per avere un punto d'appoggio verso il mare, e ai pirati di Auckland per far correre le vele lungo il pacifico. La triangolazione che speravo fosse tra mirtillo, adozioni a distanza in Lesotho e contanti australiani è diventata una perversa spirale dove, senza che me ne rendessi conto, sono invece finiti cacciatori di balena giapponesi, puttane azere e proprietari di casinò del Nevada. Non me ne importa niente se sono riuscito a perdere una fortuna, a diventare povero come un clochard o quasi, in fondo erano tutti soldi immeritati, quelli che avevo. Non è per i soldi, è che non è vita, questa. Ma adesso basta, non ne posso più.
- Sei davvero così povero, conte?
Alfio sorrise ancora: non c'era niente da fare, per quanto Luigi fosse un autentico farabutto, era pur sempre l'unico che riusciva ancora a divertirlo: adesso, ad esempio, dopo questo bagno di verità, di palesamento delle debolezze segrete, cosa veniva fuori? Nulla, niente: non valeva la pena confessarsi con il Brienza: alla fine c'erano solo poche parole che capiva davvero, e che ricordava. Soldi, donne, e forse una terza. O forse no.
- Sta tranquillo, avrò sempre di che pagarti lo stipendio, a Torino. E non solo a te: povero come un barbone sì, ma pur sempre un barbone di classe, cosa credi?
Si permise uno sguardo ironico e un sorriso complice: - Anzi, se vuoi, penso di riuscire a continuare a pagare il salario anche a Ekaterina, se pensi che possa essere utile portarla in Italia con noi...

Non attese risposta, e spinse la porta, entrando. Erano arrivati: si tolse in fretta il soprabito, salutò solo con un cenno del mento la domestica, e salì le scale verso il suo studio al piano superiore. Luigi rimase a fissarlo con un'espressione stranita e stupita, finché non lo vide sparire dietro la pesante porta di legno. Così, il vecchio rincoglionito era pur sempre sveglio abbastanza da sapere cosa succedeva tra lui e la piccola russa che girava per casa. Non se l'aspettava, dal vecchio. Ma forse aveva ragione suo padre, quando gli ricordava che a cinquant'anni un uomo sarà pure vecchio, ma non ancora del tutto rimbambito.
E allora, non c'era via di scampo. Il conte avrebbe davvero messo in atto l'intenzione di mollare tutto, di mandare nel disastro più totale una valanga di merce e di soldi, facendosi nemici in tutti e quattro gli angoli del mondo, pur di smettere tutto e piantarla lì.
Si sdraiò sul vecchio divano del soggiorno, sporcandolo come al solito con le scarpe infangate. Dalla porta della cucina, Ekaterina lo vide e lo sentì sbuffare rumorosamente. Senza aspettare i suoi ordini, cominciò a tirar fuori il samovar, il tè e la vodka. Si muoveva in fretta, a metà tra l'urgenza e la preoccupazione. Sapeva che doveva scaldare prima il tè, portarglielo prima che la rabbia pomeridiana lo prendesse, in modo che fosse possibile lasciarlo fermo sul divano, senza che l'irritazione gli mettesse in moto le gambe. E non solo le gambe. Poi la vodka, subito dopo, anch'essa calda – erano strani, gli italiani, o forse era strano solo lui – e se ne avesse messa abbastanza e se fosse stata fortunata, forse si sarebbe addormentato. Era successo qualche volta; non spesso, no, ma qualche volta sì.
Prima che la chiamasse, si presentò in soggiorno col samovar fumante, nel suo abito di lana grezza e vecchia, sulle sua scarpe basse, logore, e senza nessun sorriso negli occhi azzurri. Posò il vassoio sul tavolinetto di fronte a Luigi, senza osare guardarlo direttamente. Solo un attimo prima di voltarsi per tornare alla cucina gli lanciò uno sguardo dal basso verso l'alto, per spiarne l'umore.

E Luigi aspettava quello sguardo. Ekaterina se lo sentì addosso, e capì di non avere speranza, per quel giorno. No, non si sarebbe addormentato affatto. Si rizzò in fretta, quasi scappò in cucina. Il cuore le batteva veloce, come ogni volta. Sentiva addosso lo sguardo e la lana, parimenti pesanti, e come sempre non sapeva a quale emozione cedere. La lana pungeva, irritava la pelle, eppure scaldava; non sarebbe riuscita a vivere in quella casa gelida senza quello schifo di vestito. E lo sguardo di Luigi era lo stesso: le prometteva violenza e prepotenza, dolore e sopraffazione, ma aveva comunque un perverso e incontenibile calore, che le scaldava i muscoli, la pancia e il cervello.
In fretta e lentamente, con paura e con desiderio, con la voglia di scappare e con la voglia di restare, Ekaterina dopo qualche minuto rientrò in soggiorno con la tazza tepida, scaldata al vapore, piena fino all'orlo di vodka. Camminò piano verso il divano dove Luigi stava a gambe larghe e braccia spalancate sulla spalliera, mentre la osservava con attenzione. Teneva gli occhi bassi al pavimento, come una contadina sedicenne; e in fondo contadina era davvero, e aveva solo qualche anno in più di sedici. Si chinò per appoggiare la vodka sul tavolino basso e puntualmente, come sempre, sentì la mano callosa e ruvida di Luigi artigliarle la coscia, da dietro. Il vestito di lana non la proteggeva da certe invasioni, che di solito erano anche più decise e dirette, più immediate, e non limitate alle cosce.
Si irrigidì, rialzandosi, ma senza provare a scappare. La mano di Luigi restava ferma e stringeva, non esplorava come faceva di solito. Respirava lenta, aspettava.
- ???? – disse Luigi, in un russo stentato - parto.
Ekaterina non risposte. Le sue gambe si irrigidirono ancora un po', il respiro si affrettò, gli occhi diventarono più lucidi.
- Torno in Italia, Ekaterina. Sei contenta? ??????, capisci?
- ??????. Italia. ??, da. Sì, capisco.
Ma non capiva davvero se fosse contenta o meno. Aveva paura. Aveva sempre avuto paura, Ekaterina, e aveva paura anche adesso. Paura che Luigi le avrebbe di nuovo fatto male, come ogni giorno. Paura che non le facesse niente, che non la scaldasse. Paura di restare sola con lui, paura che se ne andasse. Paura di restare sola, senza Luigi e senza il conte, senza un rublo, a morire di fame sul molo, e nei vicoli del porto, come dieci sue compagne. Aveva paura, tanta paura, ma non sapeva quale paura avesse.
- Vado via, e ti lascio qui.
Ekaterina sentì il cuore che saltava un colpo, e la mano di Luigi che non restava più ferma, ma saliva, esplorava, frugava. Non era gentile, quella mano, non chiedeva permesso, e il respiro mancava, e il cuore saltava.
- Sì, ti lascio qui.
Un altro colpo al cuore, in sintonia, con quelle dita invadenti e decise. Và via, và via, và via. ??, sì, ??, và via, presto, e lasciami stare.
- Oppure...
Le dita e la mano si fermarono, insieme alle parole. Calda, ruvida, callosa e ferma sotto la gonna, ormai dentro le mutande d'un cotone da poco. Non poteva restare lì, così, ferma, quella mano. Si fermò anche il respiro.
- Oppure... - ripete Luigi.
Mano sempre ferma, senza fretta. Fermo anche il respiro di Ekaterina, ma un respiro ha fretta, fame d'aria, impazienza. E quella mano non può restare ferma, immobile. Non può, non deve, non può.
- ???... - ripete Ekaterina, con un filo di voce – oppure?
La mano si risveglia, impaziente. Solleva lana, lacera cotone, separa peli, penetra carne. Sposta e spinge Ekaterina sul divano, faccia contro i cuscini lisi, e tutto adesso è veloce, di corsa, respiro cuore e pelle, abito di lana grezza ormai tutto sollevato, indossato come una sciarpa, pelle bianca che non ha mai visto il sole del Mediterraneo esposta e arrossata, tutto insieme, in una frenesia di paura e desiderio, desiderio e paura.
- Oppure ti porto con me. Vuoi venire con me?
Luigi lo dice mentre le spinge la schiena verso il basso, facendole disegnare una curva graziosa e immorale. La spina dorsale di Ekaterina obbedisce, si inarca, i suoi occhi si chiudono, la bocca si riempie del lurido tessuto del divano contro cui Luigi ormai la spinge e la blocca.
- ??, ??, ?? – risponde in un soffio Ekaterina.
Un triplice sì. A Luigi, all'Italia, e al resto.

Vai al capitolo quindici

 

Pubblicato il 30 settembre 2009.

Parolata.it è a cura di Carlo Cinato.
Creative Commons License La Parolata e i suoi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons.