Ah, le canzoni popolari nel piccolo borgo di montagna dove gli emigrati ritornavano ogni anno al culmine dell'estate per respirare un po' di aria fresca e sentire il profumo delle vecchie abitudini!
Ah, le partite ai dadi, la pesca di beneficenza in piazza a Ferragosto, le filmine per i bambini proiettate in parrocchia: tutti divertimenti per chi durante l'anno a Parigi di tempo e voglia di divertirsi ne aveva veramente poca!
Non è poi che fossero così idilliache quelle vacanze passate in Italia; ma era proprio Italia quella, là sulle montagne dove si parla un dialetto "patois" che di italiano non ha nulla e del piemontese è solo lontano parente? Tornavano lassù ogni anno coloro che ormai vivevano in Francia, chi a Nizza, chi a Parigi, e tornavano lì al fondo di quella bellissima e appartata valle di montagna perché non riuscivano nemmeno ad immaginare un modo diverso di trascorrere il periodo estivo libero dal lavoro.
Non erano ancora i tempi delle vacanze di massa, dell'invasione delle coste azzurre, smeralde o "del sol" che fossero, né era comune programmare viaggi in posti lontani: quelli erano ancora privilegi per pochi che, avendo mezzi e cultura, potevano permetterselo. Per le nostre famiglie di emigranti il viaggio era rimasto quello che avevano percorso per lo più a piedi per andare lontano a cercare lavoro, fuggendo da una realtà di stenti e di fatiche.
Così ogni anno ripercorrevano al contrario l'unico viaggio che conoscevano, ogni anno sognando di trovare il riposo e la serenità di un mondo immutabile, eppure ogni anno partendo un po' delusi ed amareggiati perché neppure quel mondo era davvero immutabile.
Lassù in montagna ad alcune care abitudini si intrecciavano radicati rancori e sordi indifferenze che inducevano ora a distogliere uno sguardo, ora a bofonchiare un commento velenoso al passaggio di un vicino o di un parente; ma non erano tutti parenti lassù? Portavano quasi tutti lo stesso cognome, Luciani, lo stesso nome di quello sventurato che fu eletto papa e resse il pontificato per soli trentatré giorni: trentatré come gli anni di Cristo, come i canti delle cantiche dantesche ed anche come il numero atomico dell'arsenico [papa Albino Luciani in realtà era nato a Forno di Canale, in provincia di Belluno, e non in Piemonte, N.d.C.].
In qualche modo erano tutti parenti, eppure i "francesi" si sentivano orgogliosi e così evoluti in confronto ai pochi abitanti del luogo, quelli che ad emigrare per cercare uno spazio migliore nel mondo non erano riusciti mai, forse non ci avevano nemmeno provato. Erano restati lassù con poche bestie e le solite faticose compagnie: il fieno da tagliare, la legna da segare, gli animali da pulire ed accudire: perfino preparare la polenta richiedeva fatica e soddisfazione ne dava poca. Per contro, agli indigeni era rimasta una pace dentro, una pacata ottusità forse, che non aveva più chi aveva visto Parigi, chi ne aveva respirato l'aria appestata, ne aveva udito i rumori assordanti dei treni e del metro.
Per pochi di noi Parigi era l'Opéra, il Louvre, l'Arc de Triomphe: qualcuno ci era stato qualche volta, ma per tutti Parigi erano le "banlieu", i quartieri allora in costruzione, grigi ed uniformi, senza "charme" e senza "chic", addossati alle linee del metro quando riaffiora dalla viscere della terra e mostra senza ritegno tutta la bruttura delle sue strutture metalliche annerite, come intorno alla Gare du Nord. Non a caso oggi in quei quartieri abitano nuovi immigrati, le insegne sono in arabo e i bazar vendono a poco prezzo prodotti di altri popoli. Sono solo fortunati quelli che abitano vicino al metro...
Oh sì, il metro! Quanti sogni, quanta gloria, quale simbolo di speranza per le magnifiche sorti umane e progressive! Eppure per me, ora, il metro vuole solo dire fuga, vuole dire che posso perdermi tra la folla, confondere i miei inseguitori, sperare di essere inghiottito nelle viscere della terra, nei cunicoli e nel dedalo delle linee che si incrociano a varie profondità: basta una svolta, una scala infilata contro corrente, una sosta un po' più lunga dietro un riparo e riesci a confondere anche il più scaltro degli inseguitori.
Come sono arrivato fino qui? Che cosa mi ha spinto fino a questo punto, fino ad uccidere quella carogna di Vinorov? Non l'avevo mai visto prima del momento fatidico dello sparo che gli ha tolto la vita come ad un animale braccato. Non conoscevo l'orrore dei suoi occhi di ghiaccio, non immaginavo i suoi capelli fini e sbiaditi appiccicati sulla fronte madida, non conoscevo la lunga cicatrice che gli segnava la guancia e correva sottile fino al collo. Eppure, quando mi è finalmente comparso davanti, ho riconosciuto senza neanche pensarci i tratti della sua famiglia, le movenze a piccoli scatti, il portamento fiero uguale a quello di sua madre.
Sua madre! La ricordo appena quando camminava altera per il paese ed io, bambino, non riuscivo a comprendere i commenti misti di volgarità e distaccata ammirazione degli uomini che arricciavano "les moustaches" al suo passaggio.
Poi il matrimonio improvviso con quel russo incontrato chissà dove a Parigi, con quel trafficante (altro non poteva essere chi esibiva con tanta ostentazione orpelli e segni costosi di un benessere raggiunto di recente e troppo in fretta) dai tratti sfuggenti e la carnagione slavata. Era comparso lassù un'estate, quando io ero troppo piccolo per ricordarlo bene, ma ne ho sentito tanto parlare negli anni successivi che ne ho scoperto molti particolari. Il russo aveva stretto amicizia con Bruno e con Albino, che aveva già intrapreso il cammino ecclesiastico, ma era uomo troppo buono e semplice per sapersi destreggiare nelle logiche di potere che governano la gerarchia della Chiesa.
Negli anni successivi il russo non era più tornato e non aveva riportato la moglie al paese d'origine: si mormorava usassero compiere viaggi in paesi lontani (a loro certamente i mezzi non mancavano, anche se non ho mai saputo quale lavoro il russo facesse veramente!) oppure trascorrere brevi periodi in Corsica, essendo molto legati a persone dell'isola.
Bruno, che fino ad allora era rimasto al paese con due vacche e un piccolo orto, partì per Parigi anche lui l'anno dopo e non tornò più. La posizione di Albino nella scala ecclesiastica cominciò rapidamente a salire e neanche lui venne più a visitare il paesello, anche se intratteneva una corrispondenza fitta con il fratello e talvolta inviava sue fotografie che puntualmente venivano esibite con orgoglio dagli abitanti del luogo.
Intanto qualcosa di grave, di molto grave, era accaduto, qualcosa che aveva rotto per sempre il rispetto e gli equilibri, qualcosa che, anno dopo anno, non si è attenuato come tutti i ricordi, ma ha fatto crescere il mio rancore fino a spingermi a voler cancellare dalla faccia della terra Vinorov, la carogna che porta dentro di sé un grumo di male fin da quando è stato generato.