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Giovedì briscola

Capitolo undici, di Teresa Fusco

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- Geraldine sarà a casa? - Alfio se lo chiedeva ogni volta che stava per rientrare, immaginando che lei l'avrebbe accolto con quel suo sorriso languido, disteso, e con quella luce negli occhi che vedeva scomparire dopo pochi istanti. Quella sera rientrò più tardi del solito, il problema avuto alle cantine gli rubò più tempo di quanto poteva immaginare. Raggiunse velocemente l'ingresso, fece un cenno distratto al domestico, gli consegnò il soprabito e salì le scale che conducevano al piano superiore della villa. La porta della camera da letto era socchiusa, Alfio la aprì cercando di non far rumore. Vide Geraldine distesa sul letto, con una strana espressione in volto, gli occhi chiusi, i capelli corvini come una macchia di inchiostro sul cuscino. Un libro sul pavimento. Il suo sguardo si fermò su un tubetto rovesciato sul comodino, qualche pillola sparsa qui e là. Alfio rimase immobile, guardò le tende tirate, Geraldine amava tenerle aperte, sempre, anche di notte. Non era lei, non poteva essere lei. Le si avvicinò come se la vedesse per la prima volta, con una sorta di timidezza che sapeva non appartenergli. Le prese le mani, quelle mani che non aveva saputo accarezzare come lei avrebbe voluto. Cominciò a tremare, sentiva di averla persa, di aver perso ciò che lei per compassione, per affetto, per gratitudine gli aveva concesso. Si abbandonò ad un pianto silenzioso, ancora una volta era stata lei a decidere.

Alfio cercava di rendere il dolore più sopportabile convincendosi che il gesto compiuto dalla sua donna non fosse così inaspettato, aveva sempre temuto di perderla, in un modo o nell'altro. Nei giorni che seguirono al funerale non volle vedere nessuno. Usciva prestissimo di mattina per andare a caccia, rientrava dopo qualche ora lasciando la selvaggina sulle scale che conducevano all'ingresso, il fucile poco più in là. Spesso riceveva inviti per le aste che si tenevano nelle gallerie più prestigiose di Torino e vi partecipava, pur senza entusiasmo. Acquistava dipinti che gli sembrava potessero trovare una giusta collocazione nel suo salotto, che ormai non aveva più una parete libera. Preferiva i ritratti, e stanco di vedersi circondato da uomini in divisa e nobildonne di cui ignorava l'identità, decise di commissionare un suo ritratto ad un pittore che gli era stato indicato come uno dei migliori ritrattisti di Torino. Lo studio di Lucio Severi si trovava in un angusto viottolo in periferia. Alfio lo raggiunse in compagnia dell'avvocato Ferrara, conosciuto durante l'ultima asta a cui aveva partecipato. Si erano contesi una natura morta di modesta fattura come se si fosse trattato di un Rembrandt . Alla fine il quadro era stato assegnato all'avvocato, e i due si ritrovarono a discutere di arte, col piglio di due illustri esperti in materia. Alfio trovava stimolante la sua compagnia, dal canto suo l'avvocato, riteneva conveniente avere rapporti d'amicizia con un conte. Arrivarono nello studio di Severi nel tardo pomeriggio.
Lasciarono l'auto in una piazza che si trovava nelle vicinanze, dicendo all'autista che sarebbero tornati dopo poco. Bussarono ad una porta di legno con vetri opachi e dopo qualche secondo, eccolo lì, il pittore. Di bassa statura, stempiato, le mani tozze, indossava una camicia di lino a righe azzurre. Una volta entrati, l'avvocato Ferrara e Alfio rimasero allibiti. Nello studio regnava un'assoluta pulizia, i dipinti già ultimati erano sistemati in un angolo, in modo che le tele non si sovrapponessero del tutto, su un tavolo di legno chiaro si trovavano, in un ordine quasi maniacale, i tubetti di colore. Lucio Severi non era torinese. Si era trasferito da circa quindici anni, ma aveva origini lucane. La sua cadenza di tanto in tanto tradiva la sua provenienza e i due novelli esperti d'arte ne erano quasi divertiti. Quando Alfio gli chiese di essere ritratto, il pittore lo guardò con aria seria. Poi si voltò, raggiunse un cavalletto con una tela ancora immacolata e disse - Non uso fotografie per i miei lavori, dovrete venire qui, due o tre volte la settimana.
Alfio pensò che non si trattasse di un impegno eccessivo e accettò, stabilendo che avrebbero parlato del compenso una volta terminato il ritratto. L'avvocato Ferrara e Alfio uscirono da quello studio con aria soddisfatta, si sentivano come se avessero "respirato arte". Il conte non volle rientrare subito alla villa ed invitò l'avvocato a cena in un ristorante che amava frequentare. Scelse il tavolo che si trovava in fondo alla sala e, senza attendere i soliti consigli del maitre, ordinò una costosa bottiglia di Barolo. Alfio guardò quasi estasiato il vino versato dal maitre nei larghi bicchieri di cristallo, poi sospirò – Tre nasi son quel che ci vuole per bere il Barolo. - L'avvocato non capì e bevve senza commentare. Leggere Pavese con Geraldine non era stata una perdita di tempo pensò Alfio, fare quella citazione lo inorgoglì smisuratamente.
Dopo cena Alfio accompagnò l'avvocato Ferrara presso la sua abitazione, un appartamento piuttosto prestigioso in un antico edificio ristrutturato da poco. Si salutarono come se si conoscessero da vent'anni.
La settimana seguente, Alfio cominciò a frequentare lo studio di Severi, notando come il pittore lavorasse con una certa velocità. Nella via angusta in cui si trovava lo studio vi erano numerose botteghe di artigiani, Alfio trovava molto pittoresco quel quartiere. Un pomeriggio, Alfio raggiunse lo studio del pittore con circa un'ora d'anticipo. Stava per bussare quando fu quasi investito dalla foga di un omaccione che uscì correndo. Alfio si riprese da quello scontro improvviso, guardò l'uomo che si allontanava girando l'angolo a gran velocità. Entrò nello studio. Sembrava fosse vuoto. Alfio chiamò il pittore, questi non rispose. Stava per andarsene quando notò che il suo ritratto era stato completamente danneggiato, la tela era ridotta a brandelli. In quel momento Lucio Severi entrò e il suo sguardo cadde immediatamente sulla tela. – Mi è già successo - disse con aria rassegnata, - Dovrò decidermi a sostituire questa dannata porta in legno con una più resistente.
Alfio era stupito. Chi può divertirsi a rovinare un dipinto, che gusto si può trovare in una cosa simile? Lucio Severi si affrettò a sostituire la tela, come se volesse cominciare nuovamente il suo lavoro, ma Alfio appariva turbato. Si era accorto che nessun altro dipinto era stato danneggiato. Severi sembrava non aver fatto caso a questo particolare, e ciò insospettì Alfio, poiché temeva che il pittore gli stesse nascondendo qualcosa. – Ho dimenticato che avevo un impegno importante quest'oggi - disse con tono quasi sgarbato, - Tornerò domani - mentì.

Ritornò a casa pensando che avrebbe cercato qualche notizia in più su quel pittore. Chiamò al telefono l'avvocato Ferrara e gli raccontò l'accaduto. L'avvocato sembrò sorpreso, ma si affrettò a sottolineare che conosceva quel pittore solo per il suo lavoro, non poteva fornirgli alcuna informazione. Alfio cercò di convincersi che si era trattato di un semplice incidente, un dispetto fatto a Lucio Severi. Per qualche giorno non pensò all'accaduto, poi decise di ritornare nello studio del pittore. Camminava tranquillamente nel viottolo, l'asfalto era molto danneggiato e Alfio procedeva con cautela, cercando di non inciampare. Avanzava guardando in basso, così non si accorse che una ragazzina lo seguiva. Prima che Alfio arrivasse davanti allo studio del pittore, la ragazzina lo tirò per un braccio e guardandolo in viso sussurrò - Non dovreste venire qui. - poi corse via, voltandosi indietro un paio di volte. Alfio decise di seguirla: perché quella raccomandazione? Per sua fortuna la piccola non andò molto lontano, si infilò nel portone di un vecchio palazzo.
Alfio entrò guardandosi intorno, gli venne incontro un'anziana donna con un'espressione stupita, non aveva mai visto entrare in quel palazzo un uomo così ben vestito. Alfio chiese della ragazzina, e prima che la donna potesse rispondere udì delle risate provenire dalle scale. Salì di corsa. La ragazzina era in compagnia di una donna, avevano gli stessi occhi azzurri, Alfio ipotizzò che si trattasse della madre. Si rivolse con gentilezza alla donna, chiedendo spiegazioni su ciò che la piccola gli aveva detto, ma quella, gli fece segno di star zitto, appoggiandosi un dito sulle labbra. Il conte non capiva, poi si voltò quando sentì il portone di legno aprirsi, con un cigolio quasi insopportabile. Guardò giù dalle scale e gli sembrò di riconoscere l'uomo che l'aveva quasi travolto uscendo dallo studio di Severi. Alfio si accostò al muro, tentando di non farsi notare.
– Non avreste dovuto trattarlo così - disse piano la donna.
Alfio guardò meglio l'uomo e riconobbe Salvo, un dipendente che aveva licenziato anni prima, accusandolo di furto. Forse l'uomo aveva saputo del ritratto di Alfio e preso dall'ira si era introdotto nello studio di Severi. Alfio temeva che Salvo non si sarebbe accontentato di rovinare il suo ritratto, si era ricordato che quando l'aveva cacciato via, Salvo l'aveva guardato con un odio spaventoso. Si assicurò che l'uomo fosse entrato nel suo appartamento, al piano di sotto, poi guardò la donna e la ragazzina e disse loro - Grazie. - poi scappò via.

Tornando a casa, totalmente sconvolto, notò un uomo, appoggiato al muro di cinta della villa. Lo chauffeur scese dall'auto, aprì il pesante cancello di ferro battuto e salutò l'uomo con distacco. Alfio osservava lo sconosciuto con curiosità, non aveva un bell'aspetto. L'autista guardò il conte per un attimo, poi salì in auto e parcheggiò alla fine del vialetto, come al solito. L'uomo, con lentezza, si avvicinò all'auto, in attesa che Alfio scendesse.
- Cosa vuole? Non avrà sbagliato indirizzo? - disse Alfio allo sconosciuto.
L'uomo non si aspettava che Alfio gli desse del lei e quasi imbarazzato si affrettò a rispondere: - Mi dispiace, non intendevo disturbarla, ma io... - poi tentò di sistemarsi al meglio l'abito logoro che indossava, facendo attenzione a non far cadere un pacco che aveva tra le mani. Era un uomo di mezza età, ma appariva molto più anziano. Il pacco era di forma rettangolare, non molto grande, ed era rivestito di una carta giallo pallido. L'uomo stava per consegnarlo ad Alfio quando questi gli disse - Entriamo in casa - con un tono stranamente confidenziale che in realtà celava una certa preoccupazione.
L'uomo tentennava, e malediceva il momento in cui aveva accettato quell'incombenza. - Ci conosciamo da tanto, non puoi negarmi questo favore. - gli era stato detto, - Si tratta solo di una veloce visita, non hai nulla da temere.
Appena entrato in salotto l'uomo cercò con lo sguardo una sedia o una poltrona che non fossero troppo vicine ad Alfio, che si era sistemato sul divano accanto alla finestra. L'uomo raggiunse un sofà rivestito di velluto bordeaux, un colore che Geraldine adorava, Alfio stava per dirlo a quello sconosciuto poi pensò che a lui non sarebbe importato granché e tacque.
- Sono qui per consegnarle questo. - l'uomo appoggiò il pacco sul tavolino che si trovava davanti al sofà.
- Mi stava aspettando da molto? - chiese Alfio mentre accendeva un sigaro, ma prima che potesse voltarsi per guardare meglio il suo interlocutore, quegli si alzò di scatto e corse via, sbattendo la porta d'ingresso. Il domestico sorpreso da quel rumore improvviso raggiunse il conte in salotto, temendo che fosse accaduto qualcosa di spiacevole, ma quando lo vide tranquillamente seduto, tornò alle sue faccende. Alfio rimase a lungo immobile, fissava quell'involto con curiosità. Si alzò, facendo attenzione a non urtare l'angolo del tavolino, accennò un sorriso ricordandosi che Geraldine l'aveva sempre preso in giro per questo, prese il pacco e lo aprì.
Era un libro con una rilegatura in pelle, con decorazioni floreali di pregevole fattura. Geraldine aveva portato alla rilegatoria solo alcuni volumi della raccolta appartenuta al nonno, un motivo in più per recarsi regolarmente da Ernesto. Alfio riconobbe in quel libro alcune poesie che lei gli aveva letto. Lui che non si era mai interessato di letteratura e non amava particolarmente leggere, era profondamente affascinato dalla passione che Geraldine aveva per la poesia. Sfogliando le pagine del libro Alfio fece cadere un foglio di carta piuttosto spessa. Lo raccolse, non riconobbe la grafia, lesse: "Questo era un regalo per te, Geraldine ci teneva molto". Non vi era alcuna firma, ma Alfio capì immediatamente che si trattava di Ernesto. Quell'uomo era stato in grado di esaudire il desiderio di qualcuno che non avrebbe più potuto averne, di desideri. Alfio guardò il libro, provò nostalgia, poi qualcosa di simile ad un fastidio, non riusciva più a tenere quell'oggetto tra le mani, così lo ripose in uno scaffale di legno, accanto ad un gatto di porcellana bianca. Salì in camera da letto, voleva solo dormire. Gli tornava alla mente l'immagine di Geraldine, poi d'improvviso, quella meno piacevole di Salvo. Per evitare di imbattersi nuovamente nell'uomo, decise di rinunciare al ritratto e di inviare al pittore una cospicua somma per il lavoro che aveva svolto fino ad allora.

"Conte Alfio Emanuele Maria de Felicis", senza dubbio suona bene. A volte Alfio si perdeva in queste considerazioni, anche quando era in compagnia. Durante le cene a cui era invitato, amava guardare coloro che lo circondavano, si chiedeva cosa gli altri nobili pensassero di lui. Aveva sempre avuto l'immagine di un vincente, ma dopo la morte di Geraldine si era sentito debole, solo.
Aveva preso l'abitudine di passeggiare la sera, almeno per mezz'ora, rientrando quando sentiva che l'aria cominciava a divenire più fresca... quanto avrebbe voluto avere ancora Geraldine accanto a sé, sentirla parlare dei libri che avrebbe voluto comprare, pronunciando il nome degli autori col suo delizioso accento francese. Alfio andava a letto piuttosto tardi, faticava ad addormentarsi, ma la mattina alle sette era già in piedi. La primavera, senza Geraldine, quell'anno avrebbe avuto un sapore diverso. Una mattina di giugno, Alfio si recò presso la tenuta di un diplomatico che si era appena trasferito a Torino, il quale lo aveva invitato per la colazione. Trascorse quelle ore non pensando nemmeno per un attimo a Geraldine e durante il tragitto che fece per tornare a casa, ne fu addolorato. Stava per rientrare quando, lanciando un'occhiata alla cassetta delle lettere, notò che era piena. L'avevano scelta insieme quella cassetta, Geraldine avrebbe preferito un colore più chiaro, ma alla fine aveva ceduto per far piacere a lui.
Alfio prese tra le mani la busta che recava l'indirizzo di un notaio, il cui cognome era lo stesso di un caro amico di infanzia di Alfio che era deceduto appena un mese prima. Abitava in Friuli da poco tempo, vi si era stabilito dopo il divorzio dalla moglie che era rimasta a Torino. Il terremoto si portò via lui, ed uno dei due figli. Alfio aprì distrattamente la busta e quel che lesse gli sembrò una sorta di scherzo di cattivo gusto. Cominciò a chiedersi quale dei suoi amici avesse potuto pensare ad una simile burla. Poi prese a pensare che forse non si trattava di uno scherzo e che era il caso di informarsi meglio. La busta conteneva un invito a presenziare in occasione dell'apertura di un testamento. Alfio lesse con attenzione data e luogo. Il fatto che nella lettera si facesse riferimento all'improvvisa morte di un anziano zio che non aveva mai frequentato, lo insospettì. Si sentiva confuso, e si accorse di essere rimasto sull'uscio di casa, così entrò e chiuse la porta, facendola sbattere senza volerlo.
Il giorno seguente avrebbe dovuto far visita ad un vicino, che più volte lo aveva invitato a prendere un caffè, e che sicuramente si sarebbe offeso ricevendo l'ennesimo rifiuto. Alfio teneva molto alle sue amicizie, ma non amava far visite di cortesia solo per mantenere buoni rapporti di vicinato, così inventò l'ennesima scusa e si recò in centro. Aveva un amico notaio e pensò di rivolgersi a lui per avere qualche chiarimento. Il notaio Marcucci lo accolse nel suo ufficio completamente rivestito da una boiserie in legno pregiato. I mobili erano in mogano, la scrivania in un legno diverso, Alfio non avrebbe saputo dire quale, ma conosceva a memoria la storia di quella scrivania. Si trattava di quella usata dal padre e ancor prima dal nonno del notaio Marcucci, e quest'ultimo non perdeva occasione per ricordarlo a chiunque. La segretaria del notaio, una giovane donna dai capelli di un colore rosso innaturale, chiese se avessero avuto bisogno di qualcosa, ma il notaio le intimò di ritornare al suo lavoro, lei scomparve dietro una porta a vetri.
- Come mai da queste parti? È parecchio che non ci vediamo. - cominciò il notaio con tono affettuoso.
- Vorrei che tu leggessi questa. - Alfio appoggiò la lettera sulla scrivania.
Il notaio la prese, lesse e guardò Alfio con aria serafica.
- Nessuna cattiva notizia, pare.
Alfio non ne era del tutto convinto. Il testamento, secondo quanto si riportava nella lettera, era stato redatto da un cugino di sua madre. Alfio lo aveva conosciuto in occasione di un funerale di un anziano parente e non l'aveva mai più rivisto. La situazione appariva alquanto strana, il notaio Marcucci, tuttavia, sembrava tranquillo e per nulla insospettito.
- È evidente che non ci sono eredi diretti. La tua famiglia ha sempre vantato un patrimonio di tutto rispetto. Conoscendoti, so che saprai amministrare bene un eventuale lascito, di qualsiasi natura esso sia.
Accompagnò queste parole con un sorriso sornione. Alfio lo guardò con aria indifferente, poi prese la lettera, salutò il notaio promettendogli che lo avrebbe informato sugli sviluppi della faccenda e si affrettò a raggiungere l'auto. Mentre lo chauffeur guidava verso casa, Alfio pensava a come sarebbe cambiata la sua vita se avesse ricevuto davvero in eredità una grossa somma di denaro. - In fondo - diceva tra sé - non ho mai avuto problemi economici, conduco una vita agiata, non sarebbe un evento così sconvolgente. - D'altra parte, era stato educato in maniera tale da ritenere che tutto quanto possedeva gli era dovuto, era un nobile. "Nobile", amava riempirsi la bocca con questa parola.

L'apertura del testamento era fissata per un giovedì mattina alle undici. Il giovedì era il giorno in cui Alfio si recava alle cantine per controllare il lavoro dei dipendenti e dar loro le nuove direttive, ma pensò che per un giorno, avrebbero potuto fare a meno di lui. Il notaio Marcucci era una persona cordiale, Alfio non trovò nessun altro ad attenderlo oltre a lui e ne fu sollevato. Sbrigate le formalità di rito, Alfio uscì dall'ufficio del notaio, molto più ricco di quando vi era entrato. Salì in auto e disse all'autista con tono solenne: - Portami alla villa, e poi va dove ti pare, hai la giornata libera.

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Pubblicato il 29 aprile 2009.

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