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Giovedì briscola

Capitolo tre, di chinalski

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La famiglia Brienza abitava in una masseria non lontano da Avigliano; il padre Saverio faceva il contadino e coltivava i campi di mais e l'orto e lavorava mezza giornata all'Anas, insomma, lavorava sempre; la mamma Teresa cucinava, teneva la casa e faceva lavori di cucito per i vicini.
I bambini erano ancora piccoli, ma Giuseppe seguiva il padre nei campi, Maria aiutava la mamma in casa, Donato e Antonia erano troppo piccoli e Luigi, semplicemente, non faceva nulla. Non è che non facesse propriamente nulla, anzi, era sempre in attività, ma non faceva niente che i genitori apprezzassero e che fosse di utilità al mantenimento della famiglia.

Luigi era basso, bruttino, robusto e roccioso. Aveva una resistenza alla fatica e al dolore, una resistenza alla noia e alle sensazioni sgradevoli che era sovrumana. Uno dei suoi giochi preferiti era sfidare in qualche prova di resistenza gli amici, scommettendo pochi soldi, un pezzo di pane. Una sfida ad esempio consisteva nello stare con la testa sott'acqua: nella vasca dove si abbeveravano le mucche Luigi e un altro bambino, circondati da altri bambinetti, infilavano la testa e controllavano con gli occhi storti se l'avversario cedeva prima. Non era mai successo che Luigi avesse perso in questa gara. Una volta hanno dovuto rianimarlo perché aveva iniziato a respirare acqua e stava affogando, ma aveva vinto anche quella volta: sarebbe morto pur di non perdere una competizione, non importava quale fosse la posta in gioco. Era calmo, aveva un carisma naturale e non era prepotente, e non cedeva di fronte a nessuna minaccia a imposizione: una volta presa una decisione era assolutamente irremovibile.
Luigi a 10 anni era già a capo di un gruppetto di una ventina di bambini, tutti più grandi di lui, e una dozzina di cani randagi. Andavano in giro per la campagna facendo chiasso, rubando frutta e verdura, fumando le erbe più strane che trovavano nei prati e nei boschi, inseguendo le galline e disturbando gli animali. Nel paese i ragazzini non erano molto ben visti, ma finché scorrazzavano per le campagne e non facevano danni importanti la gente accettava le loro incursioni nei campi.

Luigi si comportava da dittatore nella sua banda: non accettava consigli da nessuno, richiedeva obbedienza assoluta e dispensava punizioni esemplari a chi riteneva le meritasse. La sua capacità di farsi seguire era innata, e aveva quasi soggiogato con il proprio carattere deciso buona parte dei ragazzini della banda, che avrebbero fatto e accettato qualsiasi cosa lui ordinasse. Qualcun altro della banda, invece, non era sottomesso al capo e organizzava azioni di vendetta per punire il despota.
Un giorno sei ragazzini del gruppo che non sopportavano più gli eccessi di Luigi lo aspettarono in un vicolo buio di Avigliano e lo picchiarono con violenza per alcuni minuti. Non un gemito uscì dalla bocca di Luigi durante il pestaggio. La sera, a casa, raccontò di essere stato assalito da un toro per giustificare il braccio e il naso rotti, tre denti persi, l'occhio pesto e le numerose ferite sanguinanti. Luigi andò il giorno dopo, tranquillamente e come se nulla fosse successo, al solito raduno della banda, e anche lì raccontò la storia dell'assalto da parte del toro. Non un'occhiata malevola, non una parola furono riservate ai ragazzini ribelli che lo avevano pestato il giorno precedente.
Passarono due settimane, poi Luigi, senza preavviso, ordinò ai ragazzini a lui fedeli di prendere i sei ribelli, che dal giorno del pestaggio erano rimasti ammirati dal comportamento di Luigi e non lo avevano più contestato, e li fece legare su un carretto. Il carretto con sopra i sei ragazzini legati e urlanti, su ordine di Luigi, fu portato nel recinto dove pascolava il toro della famiglia Rosati e lì abbandonato. Furono poi sufficienti due pietre tirate in testa al toro per innescarlo. L'incidente ebbe una notevole risonanza nel circondario, e tutti si chiesero per quale motivo Saverio, il ragazzino di 13 anni morto dissanguato, e i suoi cinque amici, tutti più o meno gravemente feriti, erano andati a giocare con un carretto proprio dentro il recinto del toro più furioso della zona: nessuno di loro riuscì mai a dare una motivazione convincente allo stupido gesto.

I ragazzi della banda in estate erano grandi consumatori di randini, le pannocchie di mais, che rubavano per abbrustolire sul fuoco e mangiare. Erano a malapena sopportati quando, in venti, andavano a rubarli dai campi quotidianamente per mangiarli; la situazione peggiorò quando Luigi ordinò di rubarne molti più del necessario per andare a venderli a Ruoti. Il giorno dopo il furto, quando tornarono nello stesso campo derubato, vennero inseguiti dal proprietario che col fucile sparò loro contro grani di sale. La notte stessa qualcuno appiccò un incendio al campo di mais del contadino, rovinandogli completamente il raccolto, quaranta alberi di pesche, l'orto e il magazzino degli attrezzi da lavoro.

Saverio Brienza, il padre di Luigi, non riusciva a controllare il figlio, che oramai faceva tutto ciò che voleva in casa, arrivando anche a minacciare i genitori che cercavano di farlo lavorare nei campi. Picchiarlo non serviva a nulla, l'avevano rinchiuso senza cibo nel magazzino ma era fuggito dopo due giorni, spaccandone la parete a calci e testate e devastando, per nutrirsi, l'orto di casa. Luigi aveva trascinato nella sua banda di fuorilegge anche le sorelle Maria e Antonia e il fratello Donato; solo Giuseppe, il fratello maggiore, sembrava non essere succube di Luigi in famiglia. Giuseppe era un ragazzo tranquillo, studiava a scuola, lavorava sodo e seguiva le parole del padre e della madre: avrebbe voluto continuare a studiare fino a diventare medico.
- Che vita è la tua, Giusè? Mi sembri peggio del ciuccio.
- Lassami stà, Gìno, pensa ai tuoi randini.
- Ma tu non pazzi mai? Stai sempre a studiare e a lavorare, a me mi pare che non fai altro nella vita.
- Ascoltami: io lavoro perché voglio che i vecchi mi facciano studiare, e studio perchè non voglio più fare questa vita. Io voglio andaremene da Avigliano, voglio andare a Roma, avere il camice bianco, curare la gente. Non voglio passare la mia vita a pazziare e a bere al bar, capisci? Lassami stà, che domani c'ho il compito, và, và.
Giuseppe era l'unica persona di cui Luigi avesse rispetto e che ascoltasse: non i genitori, non i nonni, non gli uomini della banda, e meno che mai i poliziotti.

Quando Luigi aveva 12 anni la sua banda contava una sessantina tra ragazzi e uomini, e aveva uomini ai suoi ordini anche nei paesi intorno ad Avigliano, fino ad Acerenza. Non era interessato ai soldi che riusciva a estorcere alle sue vittime, praticamente tutto il ricavato lo lasciava ai suoi uomini, per sé trattenendo solo il minimo indispensabile, e anche per questo era amato dai suoi uomini. Ma il potere no, quello non lo condivideva con nessuno, ed era la vera motivazione per cui aveva creato il suo gruppo di ladruncoli. Amava quando gli altri tremavano di fronte alla sua statura ridotta, gli piaceva vedere le gocce di sudore che scendevano dalla fronte di chi avrebbe saputo dalla sua bocca il proprio destino, e avrebbe dato qualsiasi cosa per avere la gola di un uomo o di una donna, amico o nemico, tra le mani, implorare pietà, e qualche volta si toglieva la soddisfazione.

Era settembre del 1972 quando Luigi decise di mettere in atto il progetto che covava da mesi, una specie di fuoco d'artificio prima del grande cambiamento. La polizia controllava da tempo le mosse della banda, ma non erano ancora riusciti a trovare il modo di incastrare Luigi e i suoi. Luigi progettò nei minimi particolari la rapina all'ufficio postale di Rionero in Vulture: alcuni giorni di appostamenti furono sufficienti per capire il funzionamento dell'ufficio, dopodiché si procurarono le armi, le macchine e un nascondiglio dove mettere i soldi dopo la fuga. Arrivò il giorno, un sabato di fine settembre, e tutti i componenti della banda erano impegnati più o meno attivamente nella rapina, tranne Donato, Maria e Antonietta: chi in prima persona nell'assalto al furgone portavalori, chi a controllare i punti di accesso alla piazza, chi al nascondiglio. Gli uomini di Luigi erano in fibrillazione: mai avevano fatto un lavoro di queste dimensioni: avrebbero ricavato un mucchio di soldi da spartirsi, e avevano cieca fiducia nel piano del loro capo: Luigi aveva previsto tutte le mosse della polizia, studiava sempre tutto con un precisione maniacale, difficilmente poteva accadere qualcosa di non previsto, e questa volta aveva preparato i propri uomini con ancora maggiore attenzione del solito. Durante la rapina Luigi sarebbe stato in contatto telefonico con Rocchino che si trovava nel bar Sport, sull'angolo di fronte all'ufficio, mentre lui era a casa di un cugino, vicino alla chiesa madre, con vista sulla piazza della posta.

Le undici e trentacinque, un fischio dalla villa in basso segnalò che si sta avvicinando il furgone contenente i soldi degli uffici postali già visitati. Luigi potè vedere dalla sua posizione il movimento delle tre vetture che avrebbero di lì a poco bloccato il furgone, mentre alcuni uomini si avvicinarono alle guardie all'ingresso dell'ufficio. A un segnale di Rocchino scoppiò improvvisa una rissa tra un gruppo di uomini sul marciapiede che iniziarono a spintonarsi con violenza, finché uno di loro cadde dal marciapiede e venne investito dal furgone. Un poliziotto dall'interno del furgone aprì istintivamente la portiera e immediatamente venne assalito da due uomini del gruppo, trascinato a terra e freddato con un colpo di pistola, mentre le tre vetture si fermavano in modo da impedire qualsiasi movimento al furgone. Un poliziotto sparò contro la vettura di fronte, uccidendo un bandito, ma venne anche lui raggiunto dagli uomini del marciapiede, strattonato a terra e colpito con un calcio in testa. Vedendo la ferocia dei banditi i due poliziotti rimasti lasciarono cadere le armi e alzarono le mani. Alcuni uomini salirono sul furgone, li colpirono alla testa con dei bastoni e li scaraventarono giù, poi le auto ripartirono e il furgone, guidato da un bandito, le seguì fino al viale in fondo alla piazza.
Qui li attendevano otto macchine della polizia nascoste dietro l'angolo, nel frattempo altre automobili della polizia arrivarono a bloccare le altre vie di accesso alla piazza. Iniziò immediatamente una sparatoria tra i due gruppi contrapposti: in breve tredici banditi e quattro poliziotti erano a terra morti e tutti gli uomini della banda erano stati catturati, comprese le vedette agli angoli della piazza e Rocchino, ancora al telefono e gelato dal rapido evolversi della situazione. Dall'altro capo del telefono non c'era più Luigi: si era alzato non appena il furgone, dopo la rapina, era stato bloccato dalle auto della polizia, soddisfatto che il suo piano avesse funzionato perfettamente. Lui non lo riteneva un tradimento, semplicemente da qualche tempo non aveva più intenzione di continuare a guidare un gruppo di banditi, e aveva deciso di disperdere la banda. Come farlo, poi, era una decisione solamente sua: era o non era il capo? Li aveva creati lui, poteva quindi distruggerli come desiderava. E una rapina violenta, con poliziotti freddati e banditi ammazzati, con fragore e urla, gli era sembrata la maniera migliore per chiudere quel ciclo della sua vita. I capi della polizia avevano apprezzato la sua scelta di, diciamo così, sciogliere la banda offrendola a loro in blocco, in modo che gli ufficiali potessere presentarsi come coloro che avevano sgominato una pericolosa organizzazione criminale; in questo modo Luigi si era guadagnato oltre alla riconoscenza della polizia anche la loro protezione, ed era tranquillo che non avrebbero cercato di andare troppo a fondo nelle indagini per trovare chi guidava realmente la banda.

Luigi si nascose fino a primavera in montagna, sulla Sellata, vicino ad Abriola, mangiando le bacche e i frutti che raccoglieva nel sottobosco e ogni tanto qualche coniglio rubato dalle masserie vicino; per tutto quel tempo non incontrò nessuno tranne le sorelle Maria e Antonia, che una volta ogni due o tre settimane gli portavano qualche vestito pulito, un po' di cibo che lui non toccava e notizie da casa. Durante il periodo di eremitaggio di Luigi morì il padre Saverio.
- Gì, Gì, sai che è successo? tre giorni fa è morto papà.
- Attenta, che calpesti la trappola, me la rompi.
- Hai sentito Gino, cosa ti ho detto?
- Ti ho sempre detto di non chiamarmi Gino.
- Scusami Luigi. Mamma non esce di casa da quando è morto papà, non fa che piangere. I funerali saranno domani mattina, alla chiesa madre, alle dieci.
- Me le hai portate le calze di lana che avevo chiesto?
- Tieni, e Maria mi ha detto di portarti anche questo coltello.

Quando Luigi tornò dalla montagna, ad aprile, il fratello Giuseppe si era trasferito a Potenza, a casa di una zia, dove la mattina andava a scuola e il pomeriggio lavorava in una bottega di scalpellino, riuscendo così a portare dei soldi alla famiglia la domenica quando tornava alla masseria. Buona parte dei campi erano stati dati in affitto a dei coloni, Donato lavorava quelli rimasti, teneva l'orto e andava a scuola, mentre Maria e Antonia facevano dei lavori di rammendo e di sartoria in casa. La mamma non usciva più di casa e stava seduta tutto il giorno sulla poltrona davanti alla cucina.

Dopo il ritorno Luigi non visse più con i famigliari, però tornava di tanto in tanto a casa per dormire: arrivava senza prevviso a notte inoltrata, non mangiava nulla e andava a letto, la mattina usciva presto senza scambiare una parola o un saluto con nessuno. Spesso non si faceva vedere a casa per lungo tempo, e nessuno conosceva nulla della sua vita. A volte tornava a casa vestito elegante, pulito, sbarbato e profumato, altre volte ferito, sporco, ricoperto di stracci, sempre senza raccontare nulla, senza accettare niente dai famigliari e senza prendere niente da casa. Durante i periodi di assenza girava per i paesi, seguendo le feste e i mercati: vendeva oggettini, medicinali, saltuariamente faceva l'attore o il musicista negli spettacoli di paesi, più spesso il mago e l'ipnotizzatore, oppure aiutava il prete a servire messa in cambio di un piatto di minestra. Quando non dormiva nella casa di Avigliano sfruttava il proprio ascendente per trovare ospitalità a casa di qualcuno, generalmente si trattava di donne, vedove o mogli con il marito fuori casa, e non di rado si tratteneva per più giorni. In questi casi non lo si vedeva in giro per i paesi per qualche tempo: non usciva dal suo rifugio temporaneo fino al momento di lasciarlo definitivamente, ripulito, magari con i vestiti nuovi e dei soldi in tasca, e quando capitava non tornava mai in futuro a dormire nuovamente in quella casa.

Quando Luigi aveva diciannove anni, suo fratello Giuseppe si era già trasferito a Roma, si stabilì a casa di Donata, una ricca vedova di Rossano conosciuta perché frequentava il banchetto di indumenti intimi tenuto da Luigi, e con lei visse per quattro mesi e mezzo. Luigi non uscì per tutto questo tempo dall'alloggio della donna, e si può dire che non uscì quasi nemmeno dalla camera da letto, mentre Donata la si vedeva molto raramente di mattina al mercato e in banca. Quando Luigi conobbe Donata, questa era una bella e ambita quarantenne, florida e solare; poco prima di essere abbandonata la donna era irriconoscibile: magra, trascinava i piedi, la pelle tutta a macchie, un po' gobba ma ancora sorridente. Dopo l'abbandono Donata perse anche il sorriso, sostituendolo con un'espressione da mummia grinzosa e acida, e lasciò la casa, oramai non più sua, e senza una lira in tasca si trasferì dalla sorella.
Luigi, dopo avere lasciato la donna e la casa che l'avevano ospitato, andò a trascorrere l'estate a Sapri. Alloggiava all'ultimo piano dell'hotel del Golfo, con vista sul mare, mangiava nei migliori ristoranti della costa, si spostava a bordo di una Alfa Romeo rossa decapottabile ed era sempre accompagnato da belle villeggianti.

Capitolo quattro

 

Pubblicato il 22 ottobre 2008.

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