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FAQ

Forse Aneli chiedere Questo

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FAQ, cioè Forse Aneli chiedere Questo alla Parolata.
Hai delle curiosità sulla Parolata e non ti darai pace finché non avrai risposta alle tue domande?
Chiedici ciò che ti cruccia, la Parolata ti risponderà.

Perché il nome "Parolata"?

Sì, ma perché rosa?

Questo benedetto chinalski chi è? E da dove proviene il suo nome?

E Carlo Cinato, perché si chiama così?

Sei mai stato in Cina o in Giappone?

Chi è davvero Carlo Cinato?

Pensi che in Italia si legga troppo poco?

Quale rapporto ha Carlo Cinato con i libri?

Carlo Cinato è stato intervistato su Radio2? Come è andata?


Perché il nome "Parolata"?

Puro marketing. Il primo nome della newsletter è stato "Una parola al giorno" ma, appunto, è durato un giorno solo; il secondo giorno il nome era già diventato "La Parola Rivelata" o anche "LPR". Nel momento in cui la newsletter è diventata anche un sito internet è stato necessario trovare un nome meno rappresentato in rete (cercando "la parola rivelata" su Google si trovavano circa un milione di pagine), ed è nata "La Parolata", contrazione di Parola rivelata, infine semplificata in "Parolata".


Sì, ma perché è rosa?

il sito rosa è una specie di gioco che ho fatto con me stesso. Non esistono tanti siti rosa su internet, e in genere sono legati ad argomenti romantici tipo ragazzine col cuore infranto, oppure a fabbriche di bambole e simili. Quando ho deciso di fare un mio sito ho pensato che avrebbe dovuto avere un aspetto elegante, ma nello stesso tempo che sarebbe stato troppo facile farlo elegante usando il bianco e il grigio, o altri colori eleganti a priori. Così ho pensato che il mio sito sarebbe stato del colore più kitsch: il rosa. Avrei potuto anche farlo viola, anzi, un giorno o l'altro lo farò. Il rosa era il colore che meno mi piaceva, però era comunque un colore con una forte personalità e che si ricorda.
Ora il rosa mi piace ed è diventato un simbolo della Parolata.


Ma questo benedetto chinalski, chi è? E da dove proviene il suo nome?

chinalski è uno pseudonimo che viene occasionalmente utilizzato da alcuni tra i più grandi scrittori viventi, tra i quali anche Carlo Cinato. Il nome è un omaggio a Chinaski, l'alter ego di Charles Bukowski nei suoi romanzi. Si scrive sempre con la minuscola.


E Carlo Cinato, perché si chiama così?

Il nome è stato scelto fondamentalmente per motivi musicali, perché mi sembra che suoni bene: càrlocinàto, TAtataTAta.
Il cognome Cinato poi contiene anche un richiamo all'estremo oriente, a terre lontane, a lunghi viaggi: la Cina, nelle prime lettere, e il Giappone per l'assonanza coi nomi giapponesi, e la cosa mi fa piacere.


Sei mai stato in Cina o in Giappone?

No.


Chi è davvero Carlo Cinato?

Se fossi capace di dirlo avrei scritto una sola biografia, come quelle dei calciatori, e sarebbe finita lì. Invece non è così semplice, e credo che le biografie presenti sul sito siano ancora poche e dovranno aumentare in futuro. Ciò che posso dire è che in tutte le biografie c'è qualcosa di vero e c'è qualcosa di inventato, ma poco di inventato.

Io cerco in generale di essere sincero, nei limiti delle mie possibilità, ma nello stesso tempo a volte la realtà mi annoia: ho sempre bisogno di vedere qualcosa di obliquo, di esterno, di inaspettato per essere a mio agio in una situazione. Ecco, raccontare di me la semplice realtà, cioè che sono nato in un certo posto, che ho studiato qualcosa, che ho fatto qualcos'altro, significherebbe escludere tutto ciò che ho pensato, che ho inventato, ma essendo anch'esso parte di me, ne risulterebbe una biografia monca, che non racconterebbe chi sono realmente. Il modo migliore per dare un'idea di me mi è sembrato quindi inventare persone diverse, con vite diverse ma che ognuna mi contenesse.

Se un lettore poi pensasse che io sia una signora extraterrestre anziana e cicciona, che vive negli Stati Uniti, che ha girato il mondo e che gestisce una palestra di scimmie, beh, non sarebbe molto più lontano dalla realtà rispetto a chi mi conosce di persona. E poi, io curo un sito, mica partecipo all'"Isola dei famosi", quindi credo che i visitatori possano decidere se tornare sulla Parolata oppure no anche senza sapere quanti anni ho oppure se sono nato nelle Filippine.


Pensi che in Italia si legga troppo poco?

È una domanda retorica, questa. E per spirito di contraddizione io alle domande retoriche cerco di non dare la risposta attesa. Quindi: no, in Italia non si legge troppo poco. Forse è una leggenda il fatto che la gente all'estero legga tantissimo, o forse non lo è, ma è anche importante considerare che cosa legge. È vero che a Londra incontri molte persone che leggono sui vagoni della metropolitana, molto spesso però si tratta di libri economici immondi, fortunatamente introvabili in Italia. L'equivalente italiano di quei lettori possono essere i ragazzini che leggono Moccia: sono lettori che non hanno nessun interesse per la letteratura, poiché si immergono in un mondo che è esattamente lo stesso mondo in cui vivono tutti i giorni, senza alcuna elaborazione letteraria, senza alcun lavoro di fantasia aggiuntivo. Questa banalizzazione, questa piatta riduzione alla realtà vista in modo non artistico, secondo me, è l'antitesi della letteratura, ed è puramente incidentale che la storia raccontata da Moccia sia riportata su un libro.

Insomma, penso che leggere di per sé non sia positivo, come ad esempio guardare la televisione non sia negativo. È molto importante, invece, che cosa si legge. La letteratura, intendo la buona letteratura, è tale se la scrittura e lo stile sono importanti almeno quanto i contenuti. Faccio due esempi per spiegarmi meglio. Gianni Clerici, un giornalista sportivo che sa scrivere molto bene, è piacevole da leggere quando scrive di tennis anche se al lettore non interessa minimamente il tennis, perché ha un modo di raccontare le storie e un modo di scriverle che è affascinante. Ugualmente quando Mordecai Richler parla di biliardo: di gente così leggerei anche la lista della spesa. Uno scrittore bravo è capace di rendere interessante qualsiasi argomento, viceversa uno scrittore cattivo può allontanare il lettore anche dal suo argomento prediletto. Se mi chiedessi che genere di libri leggo ti risponderei: libri di qualsiasi genere, però devono essere scritti da una persona più intelligente di me. Perché la letteratura deve essere stupore, scoprire qualcosa di inatteso, di impensato, deve farti vedere le cose da un punto di vista diverso, e questo capita se lo scrittore è più intelligente di te. I libri seriali, ripetitivi, o che seguono schemi collaudati, non sono letteratura: possono essere piacevoli, rilassanti, rassicuranti, ma non sono letteratura.

Io ritengo che in Italia la gente sia sufficientemente libera da potere decidere se leggere oppure no, e chi è davvero interessato a leggere lo fa e lo farà comunque, anche se non è di moda; e chi non legge, per qualsiasi motivo, vorrà dire che avrà più tempo per fare cose che gli danno evidentemente più soddisfazioni.

Per concludere, alla Fiera dal Libro di Torino ci sono sempre folle di persone, e così in qualsiasi mercatino del libro, e anche le biblioteche, non sono vuote. Non sarà, forse, che le lamentele sugli italiani che leggono poco arrivano da chi pubblica troppi libri, e quindi troppi libri brutti, che poi non riesce a vendere? (Ecco, ho fatto una domanda retorica anch'io)


Quale rapporto ha Carlo Cinato con i libri?

In effetti spesso i lettori forti hanno un rapporto quasi morboso con i libri, ed è interessante farsi raccontare come si rapportano con loro. Io, da questo punto di vista non credo di essere un caso clinico particolarmente interessante. I libri li rispetto, ma non li idolatro; li curo, ma non ho con essi un rapporto possessivo; li condivido, ma non amo abbandonarli. Quindi ho un numero equo di libri non letti in casa: non amo comprare libri dicendomi "prima o poi lo devo leggere questo libro", perché per ogni libri c'è il momento buono e quello meno buono, e se compro un libro è perché intendo leggerlo subito: non amo abbandonare un libro non letto nella libreria, perché so quanto soffre un libro ad essere trascurato.

Mi piace molto prendere in prestito i libri in biblioteca: mi dà un senso di libertà potere scegliere tra migliaia di libri, prenderli, leggerli e riportarli, senza averli poi in giro per casa per il resto della vita a occupare spazio e prendere polvere sugli scaffali. O magari prenderli e riportarli, senza averli nemmeno aperti; o prenderli e abbandonarli dopo una pagina, restituendoli con l'intenzione di non rivederli mai più oppure con la promessa di riprenderli in futuro. Il risultato è che ho letto molti più libri di quelli che si possono trovare in casa mia.

Poi ci sono i libri che per qualche motivo voglio comprare: perché sono belli, da un punto di vista estetico (la collana dei Meridiani della Mondadori, oppure i libri Adelphi), tattile (di nuovo i Meridiani e Bompiani) o di contenuti (Dostoevskij, Lovecraft, Musil e chissà quanti altri), oppure perché sono rari e difficilmente trovabili in biblioteca (Cortazar, Perec, qualche Nabokov), o semplicemente perché voglio tenerli vicino a me, per poterli consultare in qualsiasi momento (Hofstadter, la Bibbia, Kafka, Buzzati, Canetti, Proust). E compro libri di scrittura, di semiologia, di narratologia, di grammatica italiana e inglese, di cucina, insomma, libri di studio.

Trovo infine il book-crossing, lo scambio dei libri, una bellissima idea, un modo divertente per lasciare i libri liberi di fare le proprie esperienze, e di farle fare ai lettori che li incontreranno, ma non l'ho mai praticato.


Carlo Cinato è stato intervistato su Radio2? Come è andata?

Sì, è capitato sabato 12 settembre 2009, se volete potete ascoltarla.

 

La prima intervista è quella cosa che ti annunciano quando sei in ferie, e non sai bene che cosa significherà, ma sei contento che ti sia capitata. Poi passa qualche giorno in cui ci pensi come se fosse già terminata. Un giovedì infine arriva una telefonata che ti annuncia che l'intervista devi ancora farla, che sarà per due giorni dopo e che, specialmente, sarà in diretta e non registrata. In quel momento, finalmente, ci si rende conto dell'enormità dell'impresa.
A questo punto si trascorrono le ore che dividono dall'evento a pensare a quali domande potrebbero essere fatte, a predisporre le risposte migliori, a tagliare gli aggettivi affinché le mille informazioni che si vorrebbero dire possano stare nei tre minuti a disposizione. Si va avanti ripetendo automaticamente le risposte fino all'una di sabato, quando finalmente arriva la nuova telefonata dell'intervistatrice. Solo in quel momento ci si rende conto che l'intervista è lei che la guiderà, e lo si capisce dal fatto che stravolge le domande che tanto amorevolmente ci si era preparati.
Questo è il momento peggiore: il momento in cui si intuisce che sarà impossibile uscire dignitosamente dalla situazione. Poi si riacquista la calma, si ridispongono le quattro idee principali nella nuova struttura di domande e si ridispongono le parole in un senso intelligibile.
Arriva alle due e mezza la telefonata dalla Rai, a metà della canzone di Lenny Kravitz, e si viene abbandonati al telefono in attesa della fine delle note, come aspetterebbe un condannato a morte. L'intervista poi inizia, e non si sa bene come, poco dopo finisce. Solo a questo punto il cervello si trasforma in un ribollire di idee geniali su come si sarebbe potuta condurre la chiacchierata, di risposte argute, di battute memorabili. Però, bene o male, l'intervista è passata.

Una domanda era: Da quante persone è gestito questo sito? Perché compaiono dieci biografie diverse di Carlo Cinato: in mezzo c'è anche quella vera?
La risposta post-intervista sarebbe stata: Tutte sono vere, dipende dal momento, dal periodo dell'anno, dalla situazione particolare quale sia quella vera. Ad esempio, ora, durante l'intervista, Carlo Cinato è Marilynne Mc Fagen, la ragazza americana semi-analfabeta che ha imparato l'italiano leggendo i fumetti dei supereroi, e ciò fa sì che egli sia nervoso e felice per l'occasione che gli è capitata. Tutt'altra storia sarebbe stata se l'intervista fosse stata fatta nel momento in cui Carlo Cinato era Tanoki, l'antico dio che domina questa porzione di universo: in quel caso egli sarebbe stato completamente calmo e padrone della situazione, e avrebbe gestito perfettamente il momento, ma avrebbe anche goduto molto meno del piacere di essere intervistato.

La prima intervista è quella cosa che, prima dell'inizio, hai come obiettivo di arrivare indenne al termine. E che quando è finita, se sei sopravvissuto, ne faresti un'altra immediatamente.

 

Ultimo aggiornamento: 22 gennaio 2017.

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