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I lettori scrivono

e la Parolata a volte risponde

Utili Divertenti Letterarie Sparse Novità

Chi ha un perché, ma anche un come, un dove, un quando, può proporlo alla Parolata, e magari anche rispondersi da solo.
Potete inviare i vostri dubbi o le vostre risposte sugli argomenti più disparati alla redazione.


Balsamo

Ci scrive Michele, dopo avere letto di Cinisello Balsamo e di balsamo.
--- A proposito di balsamo e derivati, propongo i versi tratti dall'Aida - libretto di Antonio Ghislanzoni, musica di Giuseppe Verdi - e precisamente dall'Atto III, Scena I, duetto Amonasro e Aida:

Amonasro
Rivedrai le foreste imbalsamate,
le fresche valli, i nostri templi d'or.

Aida
Rivedrò le foreste imbalsamate,
le fresche valli, i nostri templi d'or.

C'è molta struggente poesia (e anche la musica non scherza, anzi): Amonasro, padre di Aida, ipotizza un lieto fine con ritorno in patria per sè e figlia, ecc. (ma sappiamo che finì male). Però 'ste "foreste imbalsamate"... Sì d'accordo, si poetava così a quei tempi, e poi "imbalsamate" ci sta perché è da balsamo, e dovrebbe far pensare all'aria dolce di quei patrii boschi.
E non poteva mica Antonio Ghislanzoni scrivere "rivedrò le foreste dalla dolce aria balsamica...": a parte la metrica, sembrerebbe un pieghevole turistico.
Quale termine doveva usare il poeta, non so (magari qualcuno può provare a correggere il verso [nuovo gioco?]); tra l'altro siamo in Egitto e, sentendo "imbalsamate", a cosa si può pensare, se non alle mummie, o estensivamente a cose e persone che non offrono stimoli di alcun tipo? Così a quel punto io non riesco a commuovermi e me la rido. Sono un dissacratore? ---

Ci scrive Popinga.
--- Nella vostra newsletter parlate dell'aggettivo imbalsamate utilizzato dal librettista Antonio Ghislanzoni nella prima scena del terzo atto dell'Aida di Giuseppe Verdi. In effetti utilizzare il termine per significare foreste "balsamiche, ricche di essenze odorose" in Egitto sembra abbastanza un infortunio (si sa che al maestro di Busseto capitava talvolta di non essere molto esigente con i suoi librettisti).
Vi scrivo per dirvi, qualora non lo sapeste, che La foresta imbalsamata è anche il titolo di un dipinto che il pittore surrealista Max Ernst realizzò nei primi anni '30, durante un soggiorno nel castello di Vigoleno, nei pressi di Salsomaggiore (PR), ospite della duchessa Maria Grammont Hugo, nata principessa Ruspoli. Il dipinto rappresenta una foresta con alti alberi dal tronco diritto e le cime contorte, sullo sfondo di un cielo sereno, in cui sembra sospeso un anello di materia solida, forse di pietra, ma che potrebbe anche essere un sole eclissato dalla luna, o una guarnizione per le caffettiere: insomma un vero quadro surrealista. In più, in trasparenza sui tronchi in primo piano, abbozzato da un tratteggio che ricorda la linea prestampata dei cartamodelli per abiti, vola libero un buffo uccello, un po' piccione un po' rapace, che Ernst chiamò Loplop.
Il nome dell'opera, oggi in un museo texano, deriva, dicono le cronache, dal commento dei dipendenti del castello alla vista del quadro, con riferimento proprio al duetto del terzo atto dell'Aida. ---

Non vi allego una fotografia del quadro per non incorrere in problemi di diritti d'autore, ma vi rimando alla minuscola immagine sul sito del borgo di Vigoleno , al fondo della pagina.

Ci scrive Roberto Vittorioso.
--- Eppure ti dirò che io ho sentito la mia prima Aida a 14 anni, e l'accostamento tra le foreste e le mummie non mi è mai venuto in mente, finchè su Topolino non comparve Paperaida che diceva a Paperadames: "Ma voi imbalsamate proprio tutto!!!" ---


Piropo

Ci scrive dall'Argentina Monica.
--- Ho visto la parola "piropo": a Buenos Aires è qualcosa, spesso non gentile, che si dice a una signorina bella. ---

Abbiamo fatto delle indagini su internet e trovato qualche esempio di piropo porteño, anche se il piropo viene indicato come espressione poetica di ammirazione di un uomo a una donna, e non viene evidenziata la rudezza che invece segnala Monica. Eccovi alcuni piropi (piropo? piropos?).
Se la bellezza fosse un peccato, tu non saresti mai perdonata.
Ti muovi come il balletto del Bolscioi.
Devo essere addormentato per sognare una tale bellezza.
Dove vai, i fiori devono sbocciare.
Così tante curve, e io sono senza freni.
Chissà che qualche lettore non voglia produrre dei piropi poetici originali di Buenos Aires per la propria amata da pubblicare sulla newsletter. E la proposta vale anche per le lettrici verso il proprio amato e per tutte le combinazioni che possono venirvi in mente di amanti.


Fila e coda

Ci scrive Morena per chiederci:
--- quando le auto sono poste una davanti all'altra prima di un casello o a causa di un incidente si dice che le auto sono in fila oppure che le auto sono in coda? Si dice: c'è una coda di circa 5 km? oppure c'è una fila di circa 5 km? E davanti allo sportello della posta si dice: c'è una coda di quaranta persone oppure c'è una fila di quaranta persone? ---

Cercando le definizioni delle due parole nel significato che ci interessa troviamo:
Fìla
Serie di persone o cose disposte una accanto all'altra o una dietro l'altra: una fila di soldati, di alberi, di automobili.
Fare la fila: disporsi uno dietro l'altro aspettando il proprio turno.

Códa
Fila ordinata di persone: fare la coda; mettersi in coda.

Dalle definizioni si capisce che il termine coda viene usato solo per le persone, mentre il termine fila è più generico e può essere usato per persone e oggetti.


Nocca

Ci scrive Otter Sande a proposito della parola "nocca", che come abbiamo detto deriva dal longobardo knoha "giuntura".
--- Chissà da dove è venuto il genere femminile di questa parola? In norvegese "Nynorsk" (la varietà che preserva le radici antiche) si dice ancora knoke (maschile) per nocca o osso, così come in svedese knoge (maschile) = nocca, osso. Anche nel tedesco la parola Knochen (= osso, nocca) ha il genere maschile.
Quando, mi chiedo, e da dove è venuta la trasformazione? Forse il genere femminile della parola italiana è derivata dal plurale di quella germanica?
Nynorsk: knoke, plurale knokar.
Svedese: knoge, plurale knogar.
Anche gli inglesi ovviamente usano ancora la parola germanica quando dicono knock per bussare alla porta, cioè battere con le nocche. Le nocche in inglese si chiamano knuckles. ---

Poi ci riscrive nuovamente Otter.
--- A dire il vero ho trovato oggi nel dizionario norvegese etimologico di Ivar Aasen (1873) la parola "knoka (femminile) = giuntura, usata specialmente per quelle grandi come i ginocchi o i gomiti. Nella regione Telemark: noka". Allora la parola esisteva da noi centoquarant'anni fa. Oggi mi pare che sia del tutto morta. Ma penso anche che sia possibile che i longobardi, come noi, avessero tutt'e due le parole, una di genere maschile per le nocche e un'altra, femminile, per le articolazioni più grandi. ---


Bagigi

Marco Marcon ha preparato per noi un contributo sui bagigi, sul bagigio e sulle noccioline americane. A lui la parola.
--- Il Garzanti lo definisce "veneto", e non ha il singolare.
Sostantivo maschile plurale.
(veneto) Arachidi, noccioline americane.

Sul De Mauro invece è "ligure", sempre senza singolare, mentre in veneto avrebbe un altro significato.
Sostantivo maschile invariabile.
1. (veneto) Dolcichino.
2. (ligure) Arachide, nocciolina americana.

Sempre il De Mauro propone anche un veneto "babbagigi" per arachidi. Mai sentito. Forse hanno intervistato un balbuziente :-D

Sul Wikizionario è più genericamente "settentrionale", e ha il singolare.
Bagìgio
Sostantivo maschile (plurale bagigi).
(settentrionale) Seme della piante dell'arachide, detta anche spagnoletta o nocciolina americana.

A casa mia (veneto/trentina) si sono sempre chiamati bagigi.

Etimologia.
Sui dizionari non è riportata ma leggiucchiando in rete, tra l'altro anche da una citazione del "Dizionario etimologico dei dialetti italiani" della UTET, pare derivi dall'arabo "habb'aziz" col significato più o meno di pregevole "aziz" bacca "habb". Tra l'altro la stessa etimologia del siciliano(?) "cabbasisi" che però non sono le arachidi.
Curiosità. Le arachidi sono il frutto di "Arachis hypogaea": vengono dai fiori, ma si impiantano sottoterra per maturare. Quindi si raccolgono effettivamente sottoterra, ma Superpippo poteva anche prenderli dalla pianta se non ancora maturi. Che poi nei fumetti sembrassero già tostati e che li mangiasse con tutto il guscio è un altro paio di maniche. ---

Mi intrometto solo per aggiungere che i dizionari Zanichelli e Devoto-Oli sono tra di loro concordi nella definizione.

Bagìgi
Per (bab)bagigi.
Sostantivo maschile plurale.
(settentrionale) Arachidi, noccioline americane.

Babbagìgi
Dall'arabo habbáziz 'mandorla, bacca buona', composto di habb 'grano, seme' e aziz 'forte, sacro'.
Sostantivo maschile.
(botanica, toscano, specialmente al plurale) Tubero commestibile, di sapore zuccherino, del ciper dolce. Sinonimo (popolare) dolcichini.

A questo punto il dubbio è: che cosa sono i dolcichini?


Pistino

È oramai un anno e mezzo che Evelino Bomitali ci ha fatto la seguente domanda.
--- Mi rivolgo alla tua somma scienza per dipanare il seguente dubbio: il termine "pistino" utilizzato nel senso di pignolo, da dove deriva? È legato a qualche regione o zona geografica? ---

Caro Evelino, la lunga attesa ti ha forse fatto intuire quale sarà la mia risposta: non lo so. La parola non è presente sui dizionari, e anche su internet è usata prevalentemente col significato di "piccola pista", per modellini radiocomandati o per biciclette e moto da fuoristrada. Da ricerche fatte sembra che sia un termine regionale piemontese, ma non ho trovato della documentazione per sostenere questa tesi. Qualcuno dei lettori sa dirci qualcosa di più a riguardo?

Ci scrive Valerio Di Stefano.
--- A proposito del termine "pistino" come sinonimo di "pignolo" (e quindi con funzione aggettivale), ritengo che sia una variante del toscano "pestino" (da cui "pestinoso") con l'accezione di "selvatico".
"Sai di pestino!" in toscano ha il valore di "hai odore di selvatico" (il riferimento primo è al sapore forte che ha la cacciagione quando viene cucinata), quindi, per traslato, si riferisce a una persona che sa il fatto suo e sa far valere bene le sue ragioni, argomentandole con puntualità quasi "puzzolente". ---

Ci scrive ancheAlex Merseburger.
--- Ho chiesto a mio padre, nato a Torino e da lì trasferitosi a Bolzano a 13 anni: - pensa a quando eri bambino, una persona pignola come era definita? -
- Un pistin - ha risposto lui immediatamente.
Ipotizza che possa derivare da "pistè", cioè pestare, perché è una persona che si intestardisce su un punto. A Verona l'espressione equivalente è "pilumino", probabilmente  una persona che cerca il pelo nell'uovo. ---

Ci scrive gnugnu dal Monferrato.
--- Per mia madre pistin era la coppia costituita da un mortaio in pietra di ridotte dimensioni, con la conca profonda e stretta (poco più aperta dei fori da mina) e relativo pestello, sempre in pietra, di forma cilindrica terminante con una goccia appena accennata. Lo usava di rado per estrarre gli oli essenziali dall'aglio, ma mi raccontava che quand'ero piccolo vi polverizzava le medicine in pastiglie, che non ero in grado di ingoiare. Proveniva dalla sua casa natale, dove veniva usato per ridurre in polvere il sale grosso.
Probabilmente è una sineddoche, visto che, fuori casa, ho sentito il termine usato solo per pestello, ma per lei era il nome dell'insieme dei due, mentre gli altri mortai li chiamava normalmente mortà.
Visto che è fatto in modo da ridurre il più possibile l'accidentale fuoruscita del materiale – il sale doveva essere un bene prezioso – rende bene l'idea del pistino che non te ne lascia scappare una.
A debole sostegno di questa ipotesi c'è il fatto che, in piemontese nelle zone che frequento, mi pare, solo per il sale fino si usi il termine pistà (sal è femminile), mentre per gli altri alimenti si trova: macinà, 'n povri, fin. Veramente esiste anche 'l pan pist (veniva frantumato premendolo con una bottiglia di vetro, piena d' acqua per appesantirla, su un piano di marmo) che è, però, decisamente surclassato da pan gratà.
Per finire non posso non citarti, anche se non è attinente, 'l mùsu pist, parte essenziale del tormentone che ti scrivo tradotto "vammi a comprare due etti di faccia pesta e, se non ce l'hanno pestata, te la fai pestare". ---


Notizie

Ci scrive Marco Marcon.
--- Titolo sul Corriere della Sera: Roma, danno fuoco a un uomo e fuggono.
Occhiello: La vittima è un imprenditore di origini napoletane: era gravato da forti debiti, non si esclude il tentato suicidio.

Ora, a casa mia: o gli hanno dato fuoco, o ha tentato di suicidarsi. E se non so nemmeno questo come cavolo faccio a titolare " danno fuoco ad un uomo e fuggono"?
E comunque questo è un periodo in cui va di moda dar fuoco alle persone. Prevedo titoli:
"Danno fuoco ad un uomo e fuggono" Non si esclude un incidente stradale...
"Danno fuoco ad un uomo e fuggono" Non si esclude un tumore...
"Danno fuoco ad un uomo e fuggono" Non si esclude la caduta dal tetto... ---


Mirtilli

Ci scrive il nostro fido Alex Merseburger dai boschi dolomitici.
--- Mirtillo: hai scritto frutti "bluastri" - è corretto, ma oltre al mirtillo blu, segnalo l'esistenza anche della varietà rossa.
Il rosso, contrariamente al blu, è raramente commestibile da fresco: deve essere "stramaturo". La sua marmellata, dal sapore acidulo, si sposa perfettamente con i dolci fritti a base di farina e uova del Sudtirolo (Kaiserschmarren, Strauben). In Austria e in Baviera viene anche servita con le carni, soprattutto di selvaggina (capriolo e cervo). ---


Mettere il carico

Gli attivissimi lettori della Parolata ci scrivono anche riguardo alla frase "mettere il carico". Diamo la parola a Berilio Luzcech.
--- A sostegno dell'espressione "aggiungere il carico" da me già proposta posso mettere veramente un carico, in quanto l'autore Andrea Camilleri la usa con frequenza nei sui libri (seppur scritti in un misto dialetto-italiano), il che prova che la frase è in uso dal Po alla Sicilia. ---

Poi Mauro Cociglio.
--- Camilleri usa molto spesso il detto "mettere il carico da 11". Ecco cosa ho trovato su it.answers.yahoo.com a questo proposito.
Il detto è "carico da 11". Deriva dal gioco della briscola dove l'asso ed il 3 vengono chiamati "carichi". Il punteggio massimo è quello dell'asso che vale 11 punti. Perciò quando la mano di gioco viene "appesantita" dall'asso si dice "metterci il carico da 11", cioè il massimo del punteggio. Nel gergo comune significa fare qualcosa che peggiora una situazione già gravosa di suo. ---


Due di picche

Maurizio Codogno e Giovanni Fracasso ci segnalano che il detto "contare come il due di briscola" è sbagliato, Maurizio ci spiega che il detto vero è --- "contare come il due di picche quando briscola è fiori". D'altra parte, se ci pensi, il due di briscola vince su una qualunque carta non briscola, quindi ha un certo qual valore, no? "Contare come il due di picche" è la frase standard, quella che poi ha portato a "prendersi un due di picche". Però è appunto un'abbreviazione di quella più lunga, che in effetti è presente in una serie di varianti. ---

Giovanni aggiunge che --- il due di picche è la carta più bassa in assoluto della briscola, secondo la sequenza "Cuori-Quadri-Fiori-Picche", trasformata a volte, per facilitarne la memorizzazione in "Come Quando Fuori Piove". ---

Alex Merseburger ci scrive dal nord-est italiano.
--- Non voglio farla troppo lunga sulla briscola, però devo commentare che in nessuna osteria, ma credo anche in nessuna abitazione italiana, si giochi a briscola con le carte da bridge/ramino (con il fastidio di togliere le carte di valore 8-9-10). I semi sono denari, bastoni, coppe e spade, illustrati in modo differente nelle varie regioni (le versioni di mazzi di carte trevisane, napoletane, trentine e bolognesi le conosco direttamente per averci giocato). Mazzi che si usano anche per scopa, scopone, tressette ecc... Anche da noi si dice "valere come il due di spade con briscola bastoni". ---

Ci scrive Giovanni Fracasso.
--- Mi sento di smentire, seppur parzialmente, il buon Alex. Ciò che dice nel suo intervento è corretto, ma posso affermare che, dalle mie parti (il bastardissimo e mandrogno Oltregiogo, tra la Superba, il ducato di Milano e le terre sabaude) si gioca a briscola proprio con le carte da ramino, in mazzo da quaranta e, quel che è peggio, con la "vecchia" (il carico da dieci) che è il sette, anziché il tre, come nel resto del mondo civilizzato. Immagini, caro Curatore, quante partite ho perso con ignominia per l'abitudine errata contratta fin dall'infanzia e rafforzata fino ai tempi dell'università. Ma d'altronde, che si può pretendere da una terra che ha la presunzione di aver inventato la cirulla? ---


Busillis

Ci scrive Giovanni Fracasso.
--- Le sarà forse di interesse conoscere l'origine dell termine "Busillis".
Molto tempo fa, un giovane inesperto seminarista doveva tradurre dal latino un brano evangelico che iniziava con le parole 'indiebusillis'. Come forse voi giovani sapete, gli antichi non usavano gli spazi per separare tra loro le parole, ed il primo compito del traduttore che affronti un testo latino originale sta nel procedere a tale separazione, per poi poter pasasre alla traduzione vera e propria.
Il nostro pretino separò quelle parole nel seguente modo: 'in die busillis'. Tale ingenuità gli rese impossibile tradurre il termine 'busillis', assolutamente introvabile in tutti i vocabolari e nei testi dei Classici. Per settimane il poveretto si scontrò contro l'introvabile parola, finchè trovò il coraggio necessario per chiedere aiuto al precettore il quale, naturalmente, sciolse in pochi istanti l'enigma dell'intraducibile sostantivo separando correttamente la sentenza latina nel seguente modo: 'in diebus illis' che naturalmente significa:  'in quei giorni'. ---


Pezzotto

Ci scrive il nostro inviato a Napoli, Claudio Postiglione, circa il pezzotto.
--- Non posso esimermi dal trascinarvi nel fantastico mondo del pezzotto napoletano; nella mia città pezzotto è un termine usato per identificare una qualunque modifica tesa a migliorare o riparare l'oggetto modificato.
Nasce dagli interventi che, negli anni '80, gli scugnizzi napoletani (ma anche i figli di papà) facevano apportare ai "motorini" o alle "vespe", forse più verosimilmente alle loro marmitte, per andare più veloci o (non so quanto sia sensato) per ottenere un rumore diverso (tipo Harley Davidson?). Negli anni ha poi guadagnato un'estensione che si trascina, per quel che ci riguarda, anche nel nostro lavoro; qui intendiamo pezzotto anche il più nobile "work-around" per "apparare" una situazione che diversamente non funzionerebbe.
Insomma vedetelo come la napoletana visione della patch ma... quasi sempre fatta sotto banco, non ufficiale, con quel pizzico di furbizia mista ad omertà e accondiscendenza e con anche quella fierezza di aver utilizzato strumenti poveri (alla McGyver, se conoscete il telefilm...). Ovviamente usiamo anche il verbo "appezzottare" e tutte le sue coniugazioni.
Da adesso in poi, se vedete una macchina con i fanalini tenuti su dallo scotch o il finestrino fermato dal cacciavite pensate che quelli sono "pezzotti". ---


Il lodo

Michele ci scrive dopo avere indagato sulla moda di dire "lodo"". Lo ringraziamo molto per condividere con noi i suoi studi.
--- Ho provato a fare una ricerca sui siti di La Repubblica, del Corriere della Sera e de La Stampa. Cerco di riassumere: "lodo", oltre al significato giuridico che abbiamo visto, seguito dal nome di uno o più ministri – lodo ministeriale -, è usato come proposta normativa che cerca di trovare una soluzione condivisa tra le parti in causa, siano esse maggioranza ed opposizione, oppure sindacati e Confindustria, nell'ambito di una controversia. Non escludo che il termine venga usato anche in altri ambiti (ad esempio all'interno di un partito, per controversie tra correnti). Lodo viene quindi usato con un significato derivato dal lodo arbitrale, per analogia, per estensione.
È anche usato come sinonimo di accordo. Un titolo di Repubblica del  11/2/1989 - Sezione Forum: "Dal lodo Scotti al fiscal drag ecco gli accordi degli anni '80". Non ho trovato nulla circa l'inizio di questo uso. Chi è stato il primo, un giornalista o un politico?
Gli esempi più lontani che ho visto risalgono al 1984 (anno di inizio dell'archivio di Repubblica. ma senz'altro "lodo", nelle connotazioni dette, veniva usato anche in precedenza, infatti in uno dei primi articoli visti (La Repubblica, 24/5/1984, Giorgio Battistini) si fa riferimento ad un già esistente Lodo Jotti "[...] secondo il quale il Governo ha di ritto di ottenere dalla sua maggioranza il voto di fiducia entro i termini previsti".
Altri esempi.
1984 - Lodo Scotti: mediazione per la controversia tra sindacati e Confindustria, sui decimali dei punti di contingenza accantonati.
1985 - Lodo Gava: proposta normativa di accordo tra le parti politiche, riguardante la pubblicità RAI.
1988 - I Ministri Formica e Mannino, rivolti a sindacati e controparte, dicono: "O chiudete subito la trattativa o saremo costretti a varare un lodo ministeriale cioè un intervento coercitivo del Governo che impone erga omnes i contenuti dell'intesa [...]" - La Repubblica, 13/3/1988, Claudio Gerino.
A mio parere, nell'attualità corrente, il Lodo Alfano, o Legge Alfano, non è un compromesso condiviso, e soprattutto non proviene da una parte terza. Puo chiamarsi "lodo", sia pure nell'accezione in uso nel linguaggio politico-giornalistico?
La legge Alfano è una riedizione del Lodo Schifani (o Lodo Berlusconi) del 2003, che a sua volta deriva dal Lodo Maccanico, ideato nel 2002 (Maccanico, pur essendo un politico, potrebbe essere considerato una parte terza per la sua grande esperienza giuridica, in particolare su questioni istituzionali). Il Lodo Maccanico era una proposta normativa che nasceva per mettere d'accordo maggioranza e opposizione sulla questione dell'immunità (sospensione dei processi) per le più alte cariche dello stato o, più in generale, trovare una soluzione tra le esigenze della politica e l'attività della Magistratura.
Quando però il Lodo Maccanico ha cambiato nome, cambiando anche contenuto, ed è stato sconfessato dall'autore, avrebbe dovuto perdere l'appellativo di lodo, avendo perso lo scopo di trovare un compromesso. Su La Repubblica del 27/5/2003 scrive Liana Milella: "[...] l'ex ministro Antonio Maccanico ieri prendeva le distanze dal 'suo' lodo dicendo che «se c'è un accordo, allora il lodo esiste, altrimenti è un'altra cosa»".
Su La Stampa del 22/05/2003 scrive Guido Ruotolo: "[...] fa sapere un autorevole rappresentante di Forza Italia, Giuseppe Gargani «Se l'opposizione non è disponibile a recedere dall'annunciato ostruzionismo [...], allora il 'lodo', che vuol dire punto di mediazione, potrebbe trasformarsi in una proposta diversa»".
Sul Corriere della Sera del 14/1/2004 scrive Dino Martirano durante un'intervista ad Antonio Maccanico: "Scusi, onorevole: ma alla fine, dichiarando l'illegittimità costituzionale del lodo Schifani, la Corte ha per caso bocciato anche il lodo Maccanico? «Vogliamo scherzare? È stato bocciato il lodo Schifani, quello portato avanti con arroganza, superficialità e presunzione dalla maggioranza, mentre non è mai esistito un testo che recepisse la mia proposta [...]»".
Aggiungo, infine, i frizzanti giochi sulla parola "lodo" di Stefano Bartezzaghi, dalla sua rubrica "Lapsus". Non poteva certo essergli sfuggito un termine così invitante.
Spero che altri possano confermare queste mie impressioni o correggere miei probabili errori o incomprensioni.


A vanvera

Ci scrive Ottar Sande.
--- In Scandinavia c'è una parola antica, con radici germaniche, che somiglia molto ad "a vanvera". Il significato non è lo stesso, ma si avvicina molto. Si dice "i vanvare" o "av vanvare" [vànvare], e significa "con trascuratezza" ma le connotazioni non sono sempre così negative come in italiano: descrive delle cose evitabili e che succedono per caso.
"I vanvare" esiste anche nelle lingue danese e norvegese, gli svedesi dicono "av vanvara", ma la parola è caduta più o meno in disuso. Anche i tedeschi hanno lo stesso prefisso negativo "Wahn" e il verbo "wahren", ma la parola composta non c'è nella loro lingua moderna. ---


Commoditizzazione

Simona Brugnoni ci segnala la brutta parola "commoditizzazione", ovviamente inesistente sui dizionari ma ben presente in certi ambienti, specialmente legati al marketing.
Cosa vorrà mai dire? Suppongo che sia il processo per il quale una qualche risorsa o modo di produzione diventa in qualche modo standardizzato, non è più possibile avere competizione tra i produttori del bene e di conseguenza il prezzo diventa dipendente dal mercato e indifferenziato per i diversi produttori.
Suppongo giusto?

Ci scrive Alex Merseburger.
--- Negli anni '80 e '90 ho lavorato nell'industria dei fitofarmaci (insetticidi, fungicidi, erbicidi) e credo che l'espressione, sebbene allora non ancora in uso, significhi il passaggio, per una specialità chimica, da "patented product" a "commodity". Tale mutamento avviene  alla scadenza della Patent - brevetto (di norma valido per 18 anni) e naturalmente vale, oltre che per i fitofarmaci, anche per i farmaci umani e veterinari. Il prodotto divenuto "commodity", non più protetto da brevetto, diventa di libera produzione e vendita con conseguente crollo del prezzo. ---


Mucrone

Relativamente al significato della parole "mucrone", punta di spada, Nicoletta Bersia e Liliana Bai ci segnalano che nelle prealpi biellesi si trova il monte Mucrone, probabilmente perché, visto dalla parte giusta, è effettivamente appuntito.


Relazione

Un lettore ci scrive:
--- Scrivo per chiarire un dubbio sorto in merito alla parola "relazione", ovvero il corretto uso di questa parola, la sua etimologia... Il dubbio sorge da un dibattito acceso con una ragazza che sostiene che una relazione esiste solo tra persone e, quindi, scrivere una relazione di servizio è sbagliato, o meglio, quello che voglio comunicare ad un mio superiore attraverso l'atto (relazione, appunto) scritto non si può chiamare relazione. Il vocabolario (Treccani) sembra dare ragione a me ma, forse, non riesco a farmi comprendere. ---

Il lettore della Parolata ha ragione (spessissimo i lettori della Parolata hannno ragione), l'etimologia lascia pochi dubbi a riguardo: "relazione" deriva da "riferire", cioè comunicare ad altri quanto è a propria conoscenza, far sapere, riportare fatti.
Inoltre tutti i dizionari consultati riportano il significato di resoconto orale o scritto, addirittura il Devoto-Oli lo presenta come primo significato della parola: esposizione informativa.
E dirò di più: esiste anche il verbo relazionare.

Relazionàre
Sillabazione/Fonetica [re-la-zio-nà-re]
Etimologia
Verbo transitivo [io relazióno ecc.].
1. Informare mediante una relazione: relazionare i superiori sull'indagine svolta
2. (non comune) Mettere in relazione o in rapporto: relazionare due fatti.

Verbo intransitivo [ausiliare avere].
1. Riferire, esponendo e commentando: il ministro ha relazionato a lungo sugli ultimi avvenimenti.
(non comune) Mettersi in contatto, avere una relazione amorosa, specialmente nel linguaggio delle rubriche di cuori solitari: relazionare con qualcuno.
(raro) Avere una relazione extra-matrimoniale.


Plurali

Ci scrive Fausto Raso.

--- Urlo essendo un nome "eteroclito-eterogeneo" ha due plurali: urli e urla. Il femminile plurale, però, contrariamente a quanto riportano alcuni vocabolari, si usa solo per "le urla" dell'uomo in senso collettivo. Insomma: gli urli di Maria ma le urla di Giovanni, di Maria e di Pietro. È errato, per tanto, dire o scrivere "le urla della vittima risonavano in lontananza"; in questo caso, anche se si tratta di una persona, bisogna dire "gli urli" perché non c'è la "collettività". Anche per quanto riguarda il plurale di "grido" il discorso è lo stesso. I soliti vocabolari riportano: le grida per indicare quelle degli uomini; degli animali sempre gridi. Non è proprio cosí, come abbiamo visto.

E veniamo al plurale di orecchio. Questo sostantivo, al contrario di urlo e grido, ha anche due singolari: orecchio e orecchia. Il maschile si adopera in senso proprio, vale a dire come "organo dell'udito"; il femminile in senso figurato: l'orecchia della pagina. Nella forma plurale avremo, quindi, gli orecchi e le orecchie con la medesima distinzione che abbiamo fatto per il singolare.

Non sono forme ortodosse, quindi, anche se di uso comune, le espressioni "tirare le orecchie"; "sentirsi fischiare le orecchie"; "fare orecchie da mercante" e via dicendo. Non si tratta, come molti sostengono, di un uso figurato del sostantivo orecchio. Si deve dire, correttamente, "orecchi". A questo punto qualche pseudolinguista - ne siamo certi - vorrebbe tirarci... gli orecchi. Ma tant'è. ---


Audit

Ci scrive Monica Grivet Talocia.

--- Cara redazione, un piccolo appunto.
L'ISO, che si occupa della stesura delle norme 9000 (qualità), 14000 (ambiente) e 27000 (sicurezza delle informazioni), ha normato anche la pronuncia della parola audit e derivate decidendo di mantenere la pronuncia latina. Quindi si pronuncia audit e non 'Odit, auditor e non 'Oditor. E fin qui può andar bene. Però si pronuncia anche internal auditing e non internal 'Oditing. E questo mi suona sinceramente strano. Ma tant'è... ---

Scrive sull'argomento anche Berilio Luzcech.

--- Cara redazione,
leggo con piacere che l'ISO decide di mantenere la pronuncia latina per "audit", mi stupisce anzi un po' che si debba ricorrere all'ISO per ricordare, soprattutto a noi italiani, che certe parole ripescate dal latino vanno pronunciate alla latina e non storpiate alla anglosassone. Ne sono un esempio "bus", contrazione di "omnibus" che tutti pronunciamo "bus" riferendoci al mezzo pubblico e "bas" se parliamo di canali per dati, e "summit", che oramai quasi tutti pronunciano "sammit".
Né si può replicare che "il latino è lingua morta e non si può conoscere come venissero pronunciate le parole dagli abitanti di Roma...", tesi portata avanti spesso dagli anglofili, ma senza fondamento. Esistono infatti molti studi al riguardo, basati sulle parole onomatopeiche. In sostanza è facile intuire che, per esempio, il guaito del lupo, "ululatus", non poteva essere pronunciato "alalatas" e di conseguenza tutte le altre parole come "summit" e "omnibus".
Mi piacerebbe sapere dai lettori della rubrica se qualcuno è al corrente di altre prese di posizione dell'ISO o della Crusca. ---

Pubblichiamo l'intervento dell'ottimo Berilio e attendiamo contributi dai lettori. Ci permettiamo solo di segnalare che la parola 'summit' è riportata sui dizionari Devoto-Oli, Garzanti, Zingarelli e De Mauro come parola inglese, derivata dal latino 'summa' attraverso il francese, quindi non si tratta di parola latina e segue invece le regole di pronuncia dell'inglese. A riguardo potete leggere un approfondimento sul forum dell'Accademia della Crusca: discussione su summit.


Bancabile

Ci scrive Marco Marcon, e non sapendo bene dove inserire il suo contributo lo lasciamo generico.

--- Propongo "bancabile", che continua a essere tirato fuori ad ogni momento a proposito del progetto del termovalorizzatore (e anche questa.).
Bancabile, con mia grande sorpresa, esiste. Sia sul Garzanti, sia sul De Mauro, è però riportato un significato profondamente diverso da quello usato dai giornalisti: in entrambi i casi c'è scritto "di titolo di credito, che presenta i requisiti per essere scontato presso una banca: cambiale, effetto, assegno bancabile" ovvero per esempio un assegno che puoi incassare.
Negli articoli di giornale si parla invece di "progetto bancabile" ovvero che può essere finanziato con un mutuo bancario. ---


Ingegneri

Giovanna Giordano ci scrive.

--- Ieri avrai appreso anche tu del delitto tra vicini di casa avvenuto a Torino in via Giachino. Bene, scorrendo "La Stampa" a proposito di questo fatto di cronaca, ho trovato un sottotitolo che qualifica l'assassino come "ex-ingegnere". Sono rimasta alquanto perplessa: come può un ingegnere trasformarsi in "ex-ingegnere"? Un ingegnere può andare in pensione come nel caso citato, ritirarsi dal mondo del lavoro o cambiare mestiere, ma non mi risulta che possa smettere di essere un ingegnere, tranne forse nel caso di radiazione dall'albo professionale. Inoltre, come sappiamo bene conoscendone molti e significativi esemplari, ingegnere è una categoria dell'anima, oltre che il risultato di un corso di studi: non si può abbandonare facilmente come un mestiere qualsiasi!
Che ne pensi? Dobbiamo rimettere la questione ai lettori, alcuni dei quali illustri ingegneri? ---


Dossieraggio

Ci scrive Marco Marcon.

--- Nonostante non figuri sui dizionari (almeno De Mauro, Garzanti, Zingarelli e Devoto-Oli) ricorre ben 12.900 volte su Google. Lo spunto deriva dal seguente simpatico (?) articoletto.
[ANTEFATTO Don Pietro Gelmini è accusato di molestie sessuali. Lui nega e si difende accusando a sua volta prima gli ebrei (?) poi i massoni (??), insomma la butta in caciara. La Stampa tira fuori che negli anni '70 è stato in galera per truffe e imbrogli vari. FINE ANTEFATTO]
"Attività di dossieraggio. «Da quali armadi e schedari sono uscite le notizie sul passato di don Gelmini?». A tarda sera Alessandro Meluzzi prende voce in nome e per conto di don Gelmini e minaccia querele. Ce l'ha con il giornalista de «La Stampa» che ieri ha pubblicato la storia segreta del prete anti-droga, quella che non figura nelle biografie ufficiali, quella che parla di carcere, di truffe e di scomuniche. Quella che il tempo ha cancellato e di cui è difficile trovare traccia anche negli archivi delle agenzie giornalistiche. «Articoli come quelli scritti in questi giorni su don Gelmini - dice Meluzzi - presuppongono un'attività di dossieraggio. Ora questo lavoro sarà valutato attentamente da don Gelmini che deciderà poi se avviare iniziative legali». [...] «Era il 13 novembre 1969 - scrive «La Stampa» - quando i carabinieri lo arrestarono per la prima volta, nella sua villa all'Infernetto, zona Casal Palocco, alla periferia di Roma. E già all'epoca fece scalpore che questo sacerdote avesse una Jaguar in giardino... All'epoca, Gelmini aveva un certo ruolo nella Curia. Segretario di un cardinale, Luis Copello, arcivescovo di Buenos Aires. Ma aveva scoperto la nuova vocazione. «Rinunciai alla carriera per salire su una corriera di balordi», la sua battuta preferita. I freddi resoconti di giustizia dicono in verità che fu inquisito per bancarotta fraudolenta, emissione di assegni a vuoto, e truffa. Scappato in Vietnam viene condannato a quattro anni di carcere che sconta tutti. «Come detenuto, non è esattamente un modello e spesso costringe il direttore a isolarlo per evitare "promiscuità" con gli altri reclusi». Cattiverie? Le biografie ufficiali sorvolano su questi episodi." ---

La Parolata è un po' in difficoltà a rispondere. Wikipedia riporta come definizione di dossieraggio "attività di creazione di un dossier", attività che ha poco di illegale. Ci spiega però Luigi Li Gotti, sottosegretario alla giustizia: «[...] il governo insiste [...] dal momento che c'è un vuoto normativo sul problema del "dossieraggio", cioè la creazione e divulgazione di dossier illeciti».
Insomma, sembra che fare dossier su un argomento utilizzando informazioni lecite e pubbliche non sia dossieraggio (almeno nell'accezione burocratese), mentre lo è farli utilizzando informazioni coperte da segreto, che in Italia non ci facciamo sicuramente mancare.


Mi sono mangiato un panino

Ci chiede una visitatrice (o visitatore) del sito: è più corretto dire: "ho mangiato un panino" o "mi sono mangiato un panino"?

Solerte, la Parolata risponde. Le frasi sono entrambe corrette.
Riguardo alla prima frase direi che non c'è alcun dubbio: mangiare è un verso transitivo con ausiliare avere, quindi è giusto dire "ho mangiato un panino".
La seconda frase è costruita con il pronome personale "mi" che, pur mantenendo la forma transitiva del verbo (il pronome ha una funzione intensificante, puramente espressiva), comporta l'uso dell'ausiliare essere, quindi anche la frase "mi sono mangiato un panino" è corretta. Analogamente è giusto dire "mangiarsi un panino". Pur se inizialmente tale modo di costruire era utilizzato solo nella lingua parlata o nel linguaggio informale, attualmente è accettata anche nel linguaggio formale.
I pronomi riflessivi precedentemente indicati non sono propriamente riflessivi ma indicano piuttosto l'atteggiamento empatico del soggetto rispetto all'azione, sono perciò chiamati "riflessivi d'affetto".


Totò

Ci scrive il nostro amico Francesco Caiazzo.

--- Carissimi, leggo con piacere la newsletter de la parolata (non fosse altro che per accrescere il mio sparuto bagaglio culturale) ed apprendo ogni giorno nuovi termini, locuzioni, accenti e quant'altro trattiate nelle rubriche. A volte inserite citazioni stupende con il relativo autore. È il caso odierno: «Le persone più si sentono importanti e meno lo sono» di Antonio Bonocore alias Totò. E qui è nato il mio desiderio di scriverVi: sicuramente l'autore della frase avrà avuto una certa importanza nel proprio campo culturale, ma non sarebbe stato il caso di scrivere (in aggiunta all'anagrafico ed all'alias) anche la "professione"? (ad esempio: scrittore, attore, saggista, fisico nucleare, terrorista, presidente degli Stati Uniti, e così via). Anche perchè, stante - come detto - il mio "sparuto bagaglio culturale", potrei essere autorizzato a considerare errata la citazione, ed in ossequio alla rubrica "l'antonomasia" ritenere che l'Antonio alias Totò indicato non fosse Bonocore, come scritto, bensì quel Principe Antonio De Curtis alias Totò, attore comico che tanto ha fatto per il cinema (non solo italiano), la cultura, la televisione, la sua amata Napoli ed il "volto" dell'Italia in generale.
Un'ultima domanda, prima di prendere congedo: il nostro Bel Paese è un crogiuolo di contraddizioni in tutti i campi... anche in quello dei diminutivi (ad esempio: Pippo, vale tanto per Filippo quanto per Giuseppe; Totò vale tanto per Antonio quanto per Salvatore; Filomena può diventare sia Mena sia Nella, e così via); mi chiedevo: esiste una "regola" per la creazione degli stessi o si è autorizzati a fare "come più ci aggrada"? ---

Innanzitutto ringraziamo Francesco per il contributo, poi rispondiamo al primo punto: la frase citata è di Antonio Bonocore, di professione portiere nonché personaggio del film "La banda degli onesti", alias Totò, di professione attore, compositore e poeta, alias Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis Di Bisanzio Gagliardi, Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e d'Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo (almeno, secondo Wikipedia).
Per ciò che riguarda i diminutivi, al più presto verrà lanciata una nuova rubrica a riguardo.


Centro di estetica

Ci scrive Maurizio Codogno a proposito dell'insegna di un centro di estetica da noi segnalata: "Manificio e piedificio Bellessere - Solificio e corpificio".

--- Mentre concordo che "manificio", "piedificio", "corpificio" dovrebbero comportare una pena molto dolorosa per chi ha osato usarli, "solificio" è l'unica parola sensata, se - come immagino - il negozio vende anche dei plantari e quindi "produce suole o solette". Il dittongo "uo", quando non accentato, nell'uso toscano diventa "o". ---

Maurizio è un ottimista. Solificio, come è ben spiegato dalle scritte sulle vetrine, è relativo alla presenza di un "solarium", non ha nulla a che fare con la produzione di solette ma, piuttosto, di soli.
La Parolata potrà produrre prove fotografiche su richiesta.


Fotoelettrica

Marco Marcon ci fa notare la curiosità della parola "fotoelettrica": ha poco a che fare con l'effetto fotoelettrico ma si tratta piuttosto di "luce prodotta grazie all'elettricità", dove però l'elettricità di cui si tratta è solamente quella prodotta da un gruppo elettrogeno.


Proverbi

Berilio Luzcech ci propone un suo pensiero logico e inconfutabile sui proverbi.

--- Alla  ricerca di proverbi idioti mi sono imbattuto in un interessante esempio di come i proverbi possano seguire logiche rigorosissime. Infatti perché si dice "in  vino veritas"?
Perché "il vino fa  buon sangue" e "buon sangue non mente". ---


Buona notte al secchio

Angelo ci chiede spiegazione del detto "buona notte al secchio".

Non abbiamo trovato molto, solo che significa "lasciamo perdere, non c'è più nulla da fare", che è un detto romanesco e che allude a un aneddoto di cui non si ha più traccia, forse relativo a un secchio caduto nell'oscurità di un pozzo e non più recuperabile. Qualcuno ha maggiori informazioni a riguardo?


Hazard

A proposito di "hazard", il termine golfistico, un anonimo golfista ci scrive per contribuire all'analisi della parola.

--- Nella mia breve carriera golfistica non avevo mai sentito utilizzare il termine "hazard", ma il motivo è semplicissimo: ho sempre e solo giocato in Italia.
Il termine Hazard compare nelle regole del golf (scritte in inglese) con la seguente descrizione.
Hazards: a "hazard" is any bunker or water hazard.
Water hazard: a "water hazard" is any sea, lake, pond, river, ditch, surface drainage ditch or other open water course (whether or not containing water) and anything of a similar nature on the course.
Nelle regole tradotte in italiano la definizione è la seguente.
Ostacoli: un "ostacolo" è qualunque bunker o ostacolo d’acqua.
Ostacolo d’acqua: un "ostacolo d’acqua" è qualunque braccio di mare, lago, stagno, fiume, ruscello o un altro corso d’acqua scoperto, compresi i fossi ed i drenaggi (sia che vi scorra l’acqua o meno) o qualsiasi cosa di simile natura.
Visto che in italiano esiste un termine equivalente ed appropriato, non si usa la locuzione inglese.
In ogni caso la frase "attento, sei in ostacolo!" è ricorrente, perché quando la pallina si trova nelle zone definite ostacoli bisogna seguire regole ben precise per non incorrere in penalità.---

Ringraziamo l'anonimo golfista, specialmente per averci comunicato che i golfisti, se esiste un termine equivalente italiano, non usano la locuzione inglese.


Dubbio linguistico

Angelo ci chiede una consulenza linguistica che la redazione della Parolata non è in grado di fornire, giriamo il quesito ai lettori sperando che qualcuno sappia rispondere. A lui la parola.
--- Ho un'osservazione sui deverbali in -bile, tipo divisibile, amabile, leggibile, stendibile, fattibile... alcuni formati dalla radice dell'indicativo ed altri dal participio passato, senza una valida motivazione, se non l'uso. 
Ma poi a sorpresa (almeno mia) ci imbattiamo in re-versibile e con-vertibile  e molti altri che non hanno motivo di essere costruiti in modo diverso tra loro perché derivano in sostanza dallo stesso verbo.
Siamo capaci di trovare una motivazione alla loro costruzione dalla radice del presente indicativo o da quella del participio passato? Ma, a parte l'eclatanza dei citati esempi, perché fattibile e non facibile, perché leggibile e non lettibile, e ancora, perché divisibile e non dividibile?
Diceva E. Tinto in "Grammatica, scienza esatta": niente in grammatica è immotivato, c'è sempre una spiegazione logica, non è l'uso a governare.
L'Accademia della Crusca, interpellata, è rimasta muta.
Aggiungerei che in TV ho sentito "trasmettibile" (da Pippo Baudo) per un programma televisivo che "era adatto ad essere trasmesso". L'invenzione spontanea ancorché errata evidenzia forse che la "ratio" della coniazione fosse di differenziare il significato dal  corretto "trasmissibile". ---
La Parolata, modestamente, non è rimasta muta. Però non ha una risposta. Sperando di avere suscitato la vostra curiosità, attendiamo dei contributi.

Sull'argomento ci ha scritto il buon Frustalampi.
--- L'appunto di [ieri] è davvero intrigante. Dice Russell: “Tutte le scienze esatte sono dominate dall'approssimazione”, figuriamoci la grammatica che ha il compito di tener sotto controllo un fiume in piena qual è la lingua, parlata e scritta. Non conosco il libro di Edoardo Tinto, citato dal lettore che ha proposto il quesito, ma mi sembra che – nelle lingue vive – anche l'uso può essere inteso come spiegazione logica. Insomma, la grammatica deve “governare” e non “mummificare”. Del resto, il lettore medesimo adopera una parola inesistente (e un po' bruttina) come “eclatanza”, e credo che si auguri che, prima o poi, l'uso lo assolverà.
In ogni modo, se la Crusca è stata zitta, mi ci butto io allo sbaraglio, partendo dall'ipotesi che reversibile e convertibile abbiano radice differente. ---

Pubblichiamo il contributo di Maurizio Codogno.
--- Il DELI (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di Castellazzo-Zolli) dice che reversibile arriva dal latino medievale "reversibilem" via il latino classico "reversum", ed è passata attraverso il francese. Forse è per questo che non segue lo standard. ---

Ribatte Angelo alle prime risposte ai suoi dubbi. La Parolata pubblica, sperando in futuro di non essere costretta a censurare i contributi per manifesta polemica.
--- L'uso NON può essere inteso come spiegazione logica:c'è sempre una motivazione che determina e "governa" l'uso.
Relativamente a 'adopera una parola inesistente (un po' bruttina) come "eclatanza", e credo che si auguri che, prima o poi, l'uso lo assolverà': non si può dire inesistente di una parola perché qualche vocabolario la ignora. Si provi a scriverla in un motore di ricerca... e si vedrà se l'uso l'ha assolta. "Bruttina" poi cosa significa? Mi pare definizione soggettiva!
Re-versibile, con-vertibile, in-vertibile, ecc., dal latino (indicativo verto -is, participio passato versus) re-vertere, cum-vertere, in-vertere.
In italiano troviamo convertire, invertire ma non revertire.
Troviamo converso inverso e riverso... oltre a conversione e inversione, ma non reversione...
Io sono convinto che non c'entra l'uso. Perché dovrebbe? ---


Marchingegno

Un lettore ci chiede maggiori informazioni sull'etimologia della parola 'marchingegno'. Si tratta di un composto di un primo elemento di etimo incerto e di ingegno, col significato di meccanismo, artificio.
Il lettore ci segnala anche la variante 'macchingegno', che effettivamente si trova copiosa su internet, che etimologicamente deriverebbe da macchina e ingegno. Non è però una parola riportata sui dizionari della lingua italiana, o almeno non ancora.


Interiezioni

Ci scrive la nostra ottima Giovanna Giordano e ci chiede.
--- Cento anni sono un 'secolo', ma nella stessa accezione, cent'anni appunto, ho sentito citare 'centennio' durante un discorso ufficiale all'Unione Industriale di Torino. Che ne dici? ---

Direi che non è un errore, in quanto è riportato su alcuni dizionari (è presente in Garzanti, De Mauro e Zanichelli, assente dal Devoto-Oli), probabilmente è una parola di introduzione recente e non ancora del tutto accettata. Deriva etimologicamente da 'centenne', aggettivo e sostantivo, col significato di periodo di cento anni e di persona di cento anni, sul modello di biennio.


Interiezioni

Diamo la parola a Piero Fabbri. 

--- Non credo meriti di essere annoverato nei "Grandi Dubbi", ma mi sono sempre chiesto se esiste regola precisa ed univoca per la grafia delle interiezioni. Sono solito scrivere "Beh", "Mah" e "Toh", ma ho visto persone peraltro molto attente alla grammatica scrivere "Bhe", "Mha" e "Tho". A me viene un piccolo crampo allo stomaco, quando vedo quelle acca in mezzo, ma non so se posso davvero evidenziare l'errore o meno. esiste una regola? ---

Azzardiamo una risposta.
Una regola precisa non sembra essere ricavabile per tutte le interiezioni. La maggior parte delle interiezioni proprie, cioè le parole che hanno unicamente funzione interiettiva, sono caratterizzate nello scritto dalla presenza della lettera h che ha una doppia funzione: permette di evitare la confusione dell'interiezione con le parole simili e ne enfatizza la pronuncia. All'interno della rubrica l'appunto sono elencate le interiezioni più comuni con la relativa grafia e l'utilizzo. Su una cosa comunque i testi di grammatica e i dizionari non mostrano alcun dubbio: di norma le interiezioni non si scrivono con la lettera h in mezzo.

Giovanni Fracasso ci scrive a proposito delle interiezioni.
--- La più alta autorità da me riconosciuta in campo ortografico, la mia maestra delle elementari, non ha dubbi sulla grafia di beh, mah e toh, nè di ahi e derivati, e quando qualche maldestro alunno osava scrivere cose come bhe, mha ecc. veniva inesorabilmente saccagnato. ---


Mignotta

Berilio Luzcech, nostro affezionato lettore, ci scrive. 

--- Sull'etimo di "mignotta" esiste la seguente interpretazione: nel passato i figli delle prostitute venivano spesso abbandonati ed allevati dagli istituti. Quando venivano registrati all'ufficio anagrafe alla voce "figlio di:" veniva scritto "madre ignota", o abbreviando, "M. ignota", che generò l'espressione figlio di mignotta. ---

Non sappiamo se sia vero, ma ringraziamo ugualmente Berilio.


Eliski

Luca Pesando ci scrive, a proposito di eliski.

--- L'eliski non è una forma di sci alpinismo estremo ma una forma di svaccamento alpino per ricchi amanti della neve fresca, che si fanno portare senza fatica in posti dove non arrivano gli impianti di risalita. Eli- potrebbe stare anche per élite, visto che non molti possono permetterselo. La parte alpinistica, comunque, è totalmente assente. ---


Cappelliera

Proposta di parola da spiegare: cappelliere (quelle da aprire con cautela in aereo all'arrivo). Ma non c'è una parola un po' più omnicomprensiva!??

La Parolata risponde.
Anzitutto: la cappelliera è la "custodia rotonda usata per riporvi cappelli, o trasportarli", oppure, ma è già una estensione, il "divisorio che separa l'abitacolo dal bagagliaio dell'automobile, sotto il lunotto. Può essere un pannello mobile, nelle auto a due volumi, o una paratia fissa, nelle auto a tre volumi".
Il suo utilizzo nel caso dell'aereo sembra essere francamente eccessivo, vista la scarsità di cappelli che vi vengono alloggiati. Normalmente, e più correttamente, si utilizza il termine "vano portaoggetti".


Cordon bleu

Un lettore ci chiede cosa abbia a che fare il cordon bleu con la cucina.

Che si tratta di una onoreficenza francese  del XVI secolo l'abbiamo già detto, e anche che, poichè era l'ordine più esclusivo della Francia, divenne sinonimo di eccellenza intorno al diciottesimo secolo.
Ciò che non abbiamo detto è che tale ordine era anche famoso per i banchetti luculliani che accompagnavano le cerimonie di investitura. Al termine del diciannovesimo secolo venne infine fondata in Francia la pubblicazione settimanale di cucina "La Cuisinière Cordon Bleu" e vennero organizzati sotto l'egida della rivista corsi gratuiti di cucina tenuti da famosissimi chef, fino alla fondazione di una rinomata scuola di cucina con filiali in tutto il mondo.
Questo  il motivo dell'associazione tra l'ordine e i cuochi, spero che nessuno mi chieda perché proprio la fettina impanata è chiamata cordon bleu.


Per la quale

Un lettore ci scrive per puntualizzare l'utilizzo della forma "per la quale".
--- Per la quale è una espressione usata, con valore attributivo, in riferimento a persona o a cosa che è tale da essere approvata, che è come si richiede, ammodo, per bene: è un ragazzo non troppo per la quale. ---

 

Ultimo aggiornamento: 26 maggio 2010.

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