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Le stupefacenti recensioni di chinalski

dove nulla che sia meno che stupefacente verrà recensito

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La libreria Belgravia, a Torino

Magari sono anni che vi chiedete, tormentandovi la notte, quale sia la libreria preferita di chinalski. O magari la domanda non vi ha mai sfiorato. Incurante di conoscere a quale gruppo di persone appartenete, chinalski andrà a raccontarvi proprio questo: qual è la sua libreria preferita.

È una libreria piccola, con una sola vetrina sulla via, non ha né i divanetti né la caffetteria né la foto in bianco e nero di Joyce, non organizza mostre di fotografia nell’ingresso e non vende computer. Però è amichevole, i libri sono un po’ ordinati e un po’ disordinati, un po’ facili da raggiungere e un po’ a tre metri di altezza. E i libri te li leggi comunque, in piedi magari, oppure accovacciato vicino a uno scaffale, ma te li leggi, anche senza divanetto.
Non ho nulla contro le librerie con i divanetti, la caffetteria e la foto in bianco e nero di Joyce, sia chiaro, anzi penso che siano dei bellissimi posti dove trascorrere il tempo sfogliando libri, toccandoli e leggendoli. Sono rimasto affascinato dalle librerie statunitensi enormi, con centinaia di metri di scaffali a propria disposizione e migliaia di titoli sotto gli occhi, e la possibilità, magari solo teorica, di tornare più e più volte in libreria a leggere interamente un libro. Sono quindi molto contento che anche in Italia esistano queste catene. Però, quando devo comperare un libro, vado nella mia libreria. Perché è mia. Perché lì sono a casa.
E perché c’è il libraio. Non c’è il libraio nelle catene di librerie, c’è il direttore della filiale, e ci sono le commesse, i commessi e tante altre persone, e magari sono tutti entusiasti dei libri. Però non c’è il libraio. E una libreria, in fondo, è il libraio, più ancora che i libri, più che l’arredamento, più che la disposizione dei titoli.

Luca non è simpatico a tutti, e non tutti sono simpatici a Luca, ma un libraio deve essere così: la lettura non è un'attività per signorine (inteso in senso figurato). Se gli sei antipatico te ne accorgi subito: ti consiglia di andare in un’altra libreria, magari da Auchan, si rifiuta quasi di venderti il libro che vuoi e cerca in tutti i modi di farti desistere dall’idea di leggere. Può darsi che il libro alla fine te lo venda, in definitiva quello è il suo mestiere, ma a malincuore. Anche se gli sei simpatico te ne accorgi subito: sono risate, chiacchiere, prese in giro (ma come, era così burbero con la signora di prima che voleva “tre metri sopra il cielo”). Allora si può parlare. Dal panettiere parli di pane, o del Toro se è un tifoso di calcio, o del tempo, al limite. Dal libraio invece parli di tutto, dalla filosofia a internet agli ufo passando per la gastronomia, perché nei libri c'è tutto, perché nei libri c’è il mondo, e il libraio, non il direttore o la commessa, conosce i libri e quindi il mondo.

Con Luca parli di libri perché lui li ha letti, se non il libro in questione magari uno simile, o quello precedente dell’autore, oppure la recensione o una polemica a riguardo. Poi, dopo un po’ di tempo che lo conosci, ti consiglia un libro che forse non avresti mai considerato, perché pensa che potrebbe interessarti, e magari ti interessa davvero e gliene sei grato, perché spesso la vita viaggia su dei binari da cui può non essere facile uscire, quindi un deragliamento ogni tanto è più che positivo. Ciò che vi può dare il libraio, un libraio come Luca, vale ben di più dei pochi euro che si possono risparmiare da FNAC o da Auchan. A meno che non vi abbia mandato lui, da Auchan.

La libreria di Luca si chiama Belgravia e si trova in via Monginevro 44 bis a Torino.

Pubblicata il 14 settembre 2007.

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Il palazzo di Fuksas a Porta Palazzo, a Torino

Fuksas: se non mi chiamassi chinalski vorrei chiamarmi Fuksas. E tutti i suoi derivati: Fuskas, Fuxas, Fussksass. E vorrei progettare un edificio come quello, nuovo, in piazza della Repubblica, Porta Palazzo, a Torino. Un edificio senza nome, al momento è il "PalaFuksas", tra virgolette come una citazione, come qualcosa di cui si ha soggezione, come qualcosa che non si sa definire in modo soddisfacente.

La storia è la seguente: le quattro porzioni di Porta Palazzo non avevano la stessa dignità: una, con la tettoia dell'orologio, imponente, metallica, art nouveau, si metteva in mostra e dominava, dal basso, la piazza; due con i bassi e anonimi fabbricati ottocenteschi del mercato si proponevano senza fronzoli per ciò che potevano offrire: duro lavoro e copertura per i venditori; il quarto era uno scempio. Senza grazia e senza tatto, cafona in un salotto, pur se decaduto, della città, si discingeva un ammasso inconcludente di lamiere e formica. Dentro trovavano luogo i banchi del mercato dell'abbigliamento, chiassosi e disordinati non facendo che amplificare l'ineleganza del contenitore. Non poteva avere futuro la struttura di cenci: proveniva dal passato volgare degli anni cinquanta o sessanta, quando si abbattevano le vetrine ottocentesche dei caffè di via Po per rifarle in alluminio.

Poi arrivarono le ruspe, dopo poco le gru, fino a quando iniziò a spuntare da dietro le protezioni uno scheletro dinoccolato, asimmetrico, e sicuramente qualcuno ha iniziato a lamentarsi, a giudicare un architetto senza conoscere il progetto, senza aspettare il termine dei lavori e, soprattutto, senza capire nulla di architettura. Sullo scheletro fu poi applicata una corazza di vetro, e infine delle lamieracce sono andate a coprire l'edificio.

Finalmente il quadrante derelitto poteva tornare a mostrarsi al mondo: sarebbe stato all'altezza dei compagni? sarebbe stato bello? o, quantomeno, utile? Sicuramente non è più necessario vergognarsi in vece sua. La corazza di vetro industriale riunisce in sè curiosamente rozza funzionalità e eleganza, la disposizione orizzontale degli elementi offre una piacevole sensazione di compostezza e solidità all'esterno, mentre le coperture sghembe e la grossa trave arrugginita all'ingresso infondono una sensazione di inquietante precarietà e caducità.

È però l'interno dell'edificio che ne racchiude il fascino: una piazza coperta e cava, un insieme di vuoti collegati dal nulla, un immenso e preziosissimo scrigno costruito con materiali di scarto, la copertura di stupido alluminio che sembra una volta affrescata, ruggine dappertutto, sberleffi di intonaco e passerelle che si intersecano. E le colonne, di cemento, con la loro prospettiva ipertrofica, non solamente colonne, ma piramidi tecnologicamente esasperate. Nel cavo della piazza, la volta della ghiacciaia, cinque metri sotto il piano di calpestio, è stata estratta dal terreno, come non le era mai capitato, per mostrare la propria arcaica grazia sensuale all'interno dell'edificio che più freddo e moderno non si può.

Tutto ciò può essere un mercato dell'abbigliamento? Probabilmente no, il palazzo ha un carattere troppo forte per ridursi ad essere un centro commerciale, la sua struttura è troppo complessa e impalpabile al tempo stesso, probabilmente la complessità del palazzo distruggerebbe il mercato, e il mercato annienterebbe l'impalpabilità del palazzo.

Ora il contenuto dal contenitore è parte dell'esposizione della Triennale Tre musei, opere che sembrano (sono?) realizzate per il luogo espositivo, e questa volta il contenuto e il contenitore non si elidono ma si rafforzano, rendendo l'insieme un'esperienza totalizzante e completa sui cinque sensi: la vista, è facile, è colpita dalle linee caotiche, dai bianchi e dai grigi; l'udito è preda delle musichette ripetitive e dei cupi suoni delle installazioni; il tatto, poiché le mani non si trattengono dal tastare le superfici lisce di intonaco e quelle scabrose delle travi; l'odorato è sopraffatto nella stanza delle muffe, una nicchia bagnata, muffosa e cangiante; infine il gusto, senso negletto in architettura, si prende una rivincita dando una bella leccata alla struttura rugginosa degli ascensori.

Pubblicata l'11 dicembre 2005.

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Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust

Inutile tentare di descrivere "Alla ricerca del tempo perduto". È come descrivere la Bibbia: tutti sanno di cosa si tratta, ognuno ha la propria idea su cosa ci sia scritto dentro, quasi nessuno l'ha letta. Inutile descrivere "Alla ricerca del tempo perduto" poichè l'unico modo sensato di farlo sarebbe riscriverla completamente e offrirla nella sua interezza all'interessato. Non sembra possibile fare delle modifiche, delle riduzioni, delle sintesi a un meccanismo così perfetto, così assolutamente organico.

Viene da dire che non sia necessario conoscere il mondo per potere apprezzare la bellezza dell'opera: la Ricerca è il mondo intero, e non deve appoggiarsi a nulla di esterno per sostenersi: probabilmente un marziano che potesse leggerla la apprezzerebbe tanto quanto un terrestre. Precisazioni, solo di precisazioni può avere bisogno questo incredibile libro, e il mio consiglio è per l'edizione dei Meridiani, della Mondadori, con traduzione di Giovanni Raboni e note di Daria Galateria e Alberto Beretta Anguissola, che permettono di apprezzare alcune delle mille sfaccettature, dei mille riferimenti alle persone e alla società dell'epoca.

La Ricerca ha un andamento nel tempo bizzoso: a volte centinaia di pagine servono per raccontare alcune ore passate a una festa, altre volte con due righe si compiono salti di anni, ed è proprio questa distorsione del tempo che forse è la cosa più affascinante del libro: la possibilità di percorrere una vita grazie alla memoria, avendo quindi la conoscenza del futuro, e potendo a posteriori soffermarsi sugli avvenimenti principali. Per il lettore è stupendo lasciarsi trasportare dai ricordi del narratore, ricordi così vividi e espressi con tale precisione e trasporto che potrebbero addirittura sovrapporsi ai ricordi reali del lettore, più scialbi e in un certo senso curiosamente meno personali. La prosa di Proust è in qualche modo funzionale ai ricordi: è contorta come il pensiero umano, a volte sfuocata come il passato, ma nello stesso tempo incredibilmente netta e precisa, quasi senza dispersioni e divagazioni: è come un nodo compatto, in cui si può seguire l'andamento imprevedibile della corda, o lo si può immaginare dietro le spire superficiali, ma che ugualmente non si riesce a sciogliere, non lo si afferra mai completamente.

Esistono le letture di evasione, che permettono di evadere dalla vita di tutti i giorni, di dimenticare i pensieri e di ignorare di possedere un cervello, per un certo periodo. La Ricerca è l'esatto opposto: è una lettura di invasione, che permette di invadere la vita del narratore, di farsi carico delle sue angosce, delle sue speranze, di osservare e odorare ciò che lui osserva e odora, di percepire i pensieri formarsi, di stupirsi e di annoiarsi. Comporta uno sforzo di immedesimazione maggiore rispetto ad altri libri: è certo una lettura impegnativa, ma le soddisfazioni che si ricavano da tale fatica sono tanto simili alle soddisfazioni della vita reale.

Si fa un gran parlare periodicamente di realtà virtuale e di possibilità di provare esperienze indotte, ebbene: l'esperienza più vicina alla realtà virtuale che mi sia capitata di vivere è stata la lettura di un libro scritto cento anni fa.

Pubblicata il 20 novembre 2005.

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A cena da chinalski

La giusta dose di pigrizia, e la voglia di passare una serata con due buoni amici. Da ciò non può che nascere una cena tra uomini, senza famiglie, in modo da limitare l'impegno necessario al cuoco per preparare qualcosa di decente.
Il divertimento inizia già alcune settimane prima dell'invito, con le prime scaramucce sulla data della serata, rigorosamente agostana, e nel mezzo della settimana, in modo da potere avere a disposizione gli invitati.
Poi la discussione sul menù. Nessuna idiosincrasia alimentare? No, tranne l'umana avversione per i cetrioli e l'onesto disprezzo per il melone, un cetriolo solo più maturo. E poi: pasta e fagioli, oppure riso con i fegatini di coniglio, e poi il secondo: che cosa di secondo? Le proposte sono bocciate, con le seguenti motivazioni: ma è agosto, e poi la pasta e fagioli la mangio già sempre a casa; no, i fegatini no, io mangio gli animali, non le cose che stanno dentro gli animali.
Quindi ci si orienta su un più mite risotto con lo zafferano e salsiccia, e per il secondo si vedrà.
Perché scegliere bene il menù è importante, almeno quanto cucinare i cibi dopo: un menù può essere troppo ricercato, o troppo ordinario, o fuori stagione, o troppo pesante, o senza carattere, o eccessivamente speziato, o mal bilanciato, o mille altre cose non belle. Un menù sbagliato può annichilire la capacità di apprezzare i gusti, il miglior piatto può essere quindi sopraffatto dalle cattive compagnie a cui è costretto.
Alla fine l'idea decisiva: e se si facesse una paella? Sì, sembra che sulla paella ci sia l'unanimità. E poi il piatto unico ha sempre una buona presa sul cuoco: magari il lavoro complessivo è lo stesso di un pasto completo, però essendo tutto finalizzato a un unico piatto l'impegno sembra minore.
A questo punto l'interesse si sposta sulla ricetta: quale delle mille paella tentare? La valenciana è la prima del libro di ricette, ha quindi un'aura di classicità, e poi ha un nome musicale. Vada la valenciana.
Comprare: pollo, salsicce, maiale, salamino, cipolle, aglio, passata di pomodoro, peperoni, riso lungo, prezzemolo (il prezzemolo lo compro sempre ma alla fine dimentico di metterlo nel piatto), paprika, olive, piselli. Piselli? Non esistono più i piselli-piselli! Almeno, non negli ipermercati. Esistono solo dei pallini che invece che nei baccelli sono rinchiusi in scatole metalliche. E sono pure già cotti. Va be', tanto non ho scelta: vada per i piselli senza baccello.
La mattina precedente la oramai attesissima serata iniziano le discussioni che termineranno solo nel primo pomeriggio: ma cosa si beve con la paella? Basteranno tre bottiglie di bianco? E il dolce? La pasticceria di fiducia è chiusa: bisognerà inventare qualcosa di nuovo. La paella si cuoce nel wok? Ma non era asiatico il wok? Cosa significa paella? Dai, vuol dire padella.
Finalmente le quattro: a comprare gli ultimi ingredienti: scampi, cozze, vongole, moscardini e zafferano. Poi a casa a cucinare. Musica: cheb Khaled e poi a seguire Nick Cave e Einsturzende Neubauten. Grembiulone e via: taglia, trita, lava, mescola, scalda, trincia, soffriggi, affetta, sciogli, assaggia, cuoci, accendi, non necessariamente nell'ordine.
Come per incanto alle sette è tutto finito. Ma come, non era per le otto la cena? La paella non era un piatto lungo da preparare? Va bene, me la prenderò comoda, tanto deve solo più cuocere nel forno.
Alle otto arrivano gli invitati, puntuali e affamati.
Paella in forno, venti minuti di cottura e si procede al coronamento dell'intero processo.
La paella è venuta bene, il vino è ottimo e abbondante, il dessert è una geniale accoppiata di cioccolato e ratafià (non conoscete il ratafià? Male, molto male).
Si chiacchiera, si mangia, si beve e si sta bene. A cena da chinalski, con le persone giuste, si passa una bella serata.

Tutto ciò, ovviamente, vale se siete chinalski. Se non lo siete, non so cosa dirvi.

Pubblicata il 6 settembre 2005.

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Marc Ribot in concerto al Piccolo Regio di Torino il 26 gennaio 2002

Via Po, Torino.
Sabato, inverno.
Un tipo con l'aria svagata, gli occhi interrogativi e un po' spaventati, come di bambino in un posto nuovo, forse straniero, ha vestiti troppo larghi e troppo pochi capelli. È molto più vecchio che in fotografia, ma di quando era la fotografia?
Il tipo sembra Marc Ribot, chitarrista e newyorkese, è Marc Ribot, e passeggia aspettando di suonare al Piccolo Regio mezz'ora dopo. Con quella faccia lì, riuscirà a non perdersi per Torino? Il biglietto l'ho già pagato.
Mancano solo quindici minuti e lo rivedo allo stesso incrocio, sempre le mani in tasca nei pantalonacci, aria da barbone, e finalmente riesco a salutarlo, sembra contento di essere riconosciuto, almeno tanto quanto prima sembrava contento di non essere riconosciuto.
Inizia il concerto, da solo entra in perfetto orario, il vestito è lo stesso di quindici minuti prima, compresa la giacchetta di pelle usatissima, compresi i capelli radi e in ordine sparso. Suona due chitarrine, anche loro usatissime, una acustica e una elettrica, del valore approssimativo globale di 15 euro, suona dei palloncini che fa scoppiare coi piedi, suona i bottoni metallici della giacchetta e il dito leccato e cigolante sulla cassa delle chitarre. Strana l'arte moderna. Se sei un artista devi essere capace di fare benissimo ciò che è la tradizione, dopodiché devi dimenticartene e fare ciò che nessuno ha mai osato fare, oppure fare ciò che chiunque ritiene di essere in grado di fare. Ma se sei davvero un artista, anzi, un Artista, ciò che esce dalle tue mani, dalla tua chitarra, non è comparabile con null'altro, perché ciò che esce sei tu. Quale è la differenza tra un Artista e un millantatore? La capacità di essere se stessi nell'opera prodotta. Si intuisce se l'opera d'arte è sincera, oppure se è solo paccottiglia fatta per prendere in giro il pubblico. Un artista può vendere tanto, può vendere nulla, può essere osannato dalla critica o dal pubblico, ma è Artista solo se le sue opere sono sincere.
Marc Ribot non ha più l'aria svagata con una chitarra tra le mani, i due diventano un monolite, non pensi più si possa perdere, anche se infila meandri musicali che apparentemente non conducono a nulla. La musica (?) è al limite della sopportazione a volte, non è bella, è qualcosa di più, è affascinante, è musica di un altro mondo, è musica che ti può cambiare la vita, è la musica che vorrei essere capace di suonare io, è il quadro che vorrei dipingere. Ribot già da tempo è in un altro luogo, in un tempo diverso, forse già prima di iniziare il concerto: l'aria non era svagata, solo non stava camminando sulla nostra stessa terra, come sicuramente non camminava sulla nostra terra Modigliani. Bastano poche note e le persone del pubblico, non tutte, certo, sono anche loro in un mondo diverso, dove i rumori non sono più fastidiosi ma necessari, dove le note che si succedono apparentemente casuali sono melodia pura.
Poi Ribot alza lento ma improvviso la testa, il viso luminoso, gli occhi increduli, si guarda intorno con aria interrogativa: "Va bene? Vi piace? Volete che continui? Davvero?".
Marc Ribot si definisce un musicista soul, il che può parere strano rispetto alla musica che suona; ascoltandolo dal vivo finalmente si comprende la sua definizione: non sono le note la cosa più importante, ciò che conta è l'anima.

Pubblicata il 5 gennaio 2002.

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Museo del cinema di Torino

Ci si ritrova a vagare guardando tutto ma non vedendo nulla, in una sorta di esaltazione come in sogno, quando i particolari sono definiti ma il mondo è confuso e nulla sembra impossibile. Ciò che hai appena visto è già dimenticato e quello che vedrai è più importante dell'immagine che hai davanti.
È un bellissimo museo, nel senso stretto del termine: è museo del cinema fino all'estremo, ma sarebbe bello uguale se fosse museo delle rondelle. È bello per l'edificio e per l'allestimento. Il museo, in senso stretto, è il protagonista e l'opera d'arte assoluta, Francois Confino l'artista. E poi ci sono i contenuti: oggetti, reperti, film, manifesti sarebbero un'attrazione irresistibile in un altro museo.
L'ambiente è molto vario, stimolante e rilassante, adrenalinico e intimo, schizofrenico come l'arte contemporanea. Può sembrare difficile immaginare una ragazza sdraiata a occhi chiusi nel museo del cinema, ma c'è, e ha l'aria beata di chi ha capito tutto. Ragazze assorte sui gradini, vecchi signori colti dalla nostalgia, bambine urlanti di sorpresa e bambini timorosi per la novità, ragazzi in abbandono e anziane ragazze sognanti. Tutto ciò che il cinema risveglia lo si ritrova dentro la mole, per ognuno di noi, per tutti diverso e CONTEMPORANEAMENTE.
La Mole ha quindi raggiunto una nuova destinazione: dopo avere provato ad essere una sinagoga e avere espletato i mestieri più umili, si appresta ora ad essere scrigno di emozioni, e ci serve molto questo scrigno.
Difetti, certo, per fortuna, in altro modo sarebbe insopportabile la permanenza in questo luogo. Contingenti, come qualche scritta informativa buia, piccola e illeggibile; voluti, come certe ambientazioni eccessivamente disneyane; illusori, come la gentilezza contagiosa degli impiegati nel museo, colpevole di essere parte del sogno e non appartenere al mondo reale.
Durante la prima visita si entra in un pianeta sconosciuto, dove le leggi fisiche e le regole di comportamento sono ignote. Come un bambino appena nato, si tocca, si prova, ci si stupisce. Quando è l'ultima volta che ci si è stupiti? Dalla seconda, terza visita si inizia a muoversi con più sicurezza, a vedere, a capire: prima di apprezzare il contenuto bisogna comprendere il contenitore.
La mole è visibile in ogni suo anfratto, anche i bagni sono un gioiello. Si arriva fino al livello dei medaglioni decorativi a venti metri di altezza grazie alla passerella elicoidale, che dona all'edificio neoclassico una leggerezza gotico-industriale che sovrasta a fatica lo scempio cementizio perpetrato ai danni del progetto antonelliano.
Alcuni consigli tecnici. Per gli abitanti di Torino acquistare l'abbonamento musei, in modo da potere visitare liberamente e ripetutamente tale prodigio, per gli stranieri venire al più presto (le cose belle sono sempre le più precarie) e poi soffrire per non potere tornare quando si vorrebbe. Prima di entrare nel museo è buona cosa sperimentare la prima colazione a base di brioche e cappuccino con panna alla pasticceria Ghigo, al termine di via Po.

Pubblicata il 24 luglio 2000.

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