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Quarta storia ribollita

di Piero Fabbri

Il Principio di Relatività galileiano rivoluzionò l'approccio assolutistico aristotelico (nonché quello del senso comune) alla cinematica: il pisano raccontava di cabine di navi riempite di volatili, di botti gocciolanti, di uomini fermi o in moto all'interno di esse, e sosteneva l'idea rivoluzionaria che nessuno degli enti osservabili all'interno della nave fosse in grado di rivelare lo stato di quiete o di moto (uniforme) della medesima.
Tre secoli dopo, la Relatività einsteniana (in duplice rappresentazione, speciale e generale) scuoteva di nuovo le fondamenta dell'umano sapere. Non solo le leggi della cinematica, ma lo spazio e il tempo stessi sono affetti da relativismo: e lo stravolgimento del senso comune era completato dall'introduzione di enti mostruosi e immaginifici quali il cronotopo, l'insuperabilità della luce da parte di qualsivoglia Achille Piè Veloce, per giungere infine alla sconvolgente affermazione che anche la materia più ignobile, sterco di maiale compreso, contiene congelata al suo interno la devastante energia che alimenta il fuoco supremo delle stelle.
In mezzo a queste due rivoluzioni, almeno dal punto di vista cronologico, si situa il saggio di un irriverente autore inglese, che applica spietatamente il metodo relativistico nell'impervio sentiero che conduce alla disamina della natura umana. Anticipando (anzi, demolendo) quello che alla fine del ventesimo secolo sarà chiamato "principio antropico", l'Autore graffia i luoghi comuni più beceri, che vedono l'Uomo come baricentro esatto tra Infinito e Infinitesimo: travestendolo da eroe da romanzo (ma è travestimento scherzoso, che non intende certo celare la natura squisitamente ermeneutica e metafisica dell'opera), l'inglese dilata e riduce, restringe ed espande l'Uomo stesso, ponendolo in costante confronto dialettico con sé stesso.
A far da controparte al protagonista restano i suoi simili, relativisticamente posati di volta su cronotopi solo dimensionalmente diversi, affinché il lettore possa essere illuminato dall'inesistenza dell'Assoluto Umano. Si esce dalla lettura dello pseudoromanzo con la sensazione che sia necessaria una revisione completa anche sul fronte linguistico: crescere, innalzarsi, elevarsi risultano tutti verbi ormai svuotati dai significati che non siano quelli meramente letterali, né fine migliore è riservata a termini qualiapprofondire, dettagliare, particoleggiare. L'Uomo resta contenitore solo di sé stesso e dei suoi difetti, svincolato dalle dimensioni più mistiche: da ogni confronto con i suoi alter ego ridimensionati esce sconfitto, senza che i suoi alter ego risultino vincitori. E dall'ultimo confronto, l'unico che il protagonista non sostiene con altri Sè Stesso, ritorna annichilito e distrutto. Un galoppo lontano e l'impalpabile bellezza d'una criniera sollevata dal vento d'una velocità metafisica (molto superiore a quella dei fotoni stessi) sanciscono definitivamente la vittoria della Bellezza, e la sua totale irraggiungibilità da parte degli uomini.

Soluzione.

 

Pubblicata il 4/7/2004.

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