Se è vero (e quasi sempre lo è) che due cuochi rovinano il sugo, cosa dire di questo celeberrimo piatto che ha visto l'opera di quattro attentissimi chef? Questa rubrica non ha certo l'intenzione di voler presentare il piatto da noi recentemente degustato come una novità dell'avanguardia della novelle cousine, ma piuttosto quella di far riscoprire una degustazione classicissima (e che tutti, volenti o nolenti, hanno almeno in parte assaggiato) con occhi e papille gustative nuove.
Gli ingredienti sono assolutamenti noti e di facile reperimento: in ultima analisi, il piatto viene composto, almeno dal punto di vista tecnico, come il più classico di tutte le cucine letterarie. È la storia, naturalmente tragica e con tanto di deus ex-machina finale, puntualmente narrata della vita del protagonista. Antica la ricetta, antica l'ambientazione: nota la sequenza degli avvenimenti (che viene tutt'oggi diffusissimamente riprodotta e rappresentata), e notissima la vicenda in sé: in altre parole, e come se si dovesse recensire la pizza margherita tra le cento pizze fornite da qualsiasi pizzeria. Eppure, il meccanismo, l'atmosfera, oseremmo dire i sapore stesso del dramma rimangono un esempio classicissimo dell'alta cucina letteraria. Si giunge alla morte (non certo naturale) del protagonista dopo essere stati condotti attraverso abbondanti libagioni d'amore (ma non di sesso), degustazioni di rivoluzioni (ma non di rivolte), il tutto con abbondantissima innaffiatura del miglior vino mai uscito dalle cantine degli effetti speciali (ma senza far ricorso a nessunissima esplosione d'astronave).
Ciononostante, non è certo la storia in sé a tenere viva l'attenzione del lettore (o dovremmo dire del commensale?), quanto la suprema articolazione interpretativa che i quattro maestri riescono a tratteggiare, con rimarchevoli differenze stilistiche e d'interpretazione, i medesimi ingredienti narrativi. Cosa tanto più stupefacente, se si pensa che i quattro chef non hanno mai
interpretato altro piatto che questo: se uno si affida al bilancino perfetto dell'enumerazione maniacale degli eventi, gli altri cercano d'innalzare la loro ispirazione creativa verso più alti e nobili afflati degustativi e spirituali. Il quarto ed ultimo, infine, quasi a voler a forza marcare l'uso diverso dei sapori, delle spezie e degli odori, arriva a vertici semi-mistici, rifiutando la mera narrazione ed elaborazione della trama, nel tentativo di insaporire la scarna base meramente narrativa con le spezie alte e raffinate della meditazione più intellettuale.
Quattro chef, ognuno dei quali ha il compito preciso di raccontare una porzione del medesimo piatto. Non i banali "tris di primi" che qualsiasi trattoria è in grado d'offrire al primo passante: le tre piccole porzioni (dozzinali, di solito) in quel caso plebeo arpeggiano tre piatti diversi. Qui si tratta d'un solo piatto, ma ripetuto quattro volte. Stessi ingredienti per tutti, e stessa ricetta, perchè tutti e quattro insieme costituiscono (così afferma la dottrina) un piatto unico e pienamente soddisfacente. Come un risotto antico, talvolta un po' scotto, quasi sempre sopravvalutato ma inevitabilmente presente su ogni tavola (persino quelle degli alberghi). A non
tutti piace, ma non gli mancano i fanatici disposti al digiuno più totale, in sua assenza: e a nessuno è dato di non conoscerne, almeno per sentito dire, la millenaria ricetta.
Pubblicata il 13/6/2004.