Federico Cerutti si alzò dal letto, si avvicinò alla sedia e si vestì: non si sentiva bene, aveva un forte mal di testa e si sentiva nervoso, ma non poteva assolutamente ammalarsi, non oggi.
Pochi minuti dopo era in cammino verso San Domenico, l'inquietudine non era scomparsa, anzi, era ora vera e propria paura. Era oramai per uscire da Porta Palazzo quando si bloccò improvvisamente. Si guardò intorno senza convincersi di ciò che vedeva, si avvicinò a una colonna e ne fissò l'ombra, come se fosse un fatto inusitato che gli oggetti avessero un'ombra. Ed effettivamente così era quel giorno: l'ombra, l'ombra di Federico, che le altre mattine lo precedeva uscendo dalla porta della città, oggi lo seguiva. Federico allargò lo sguardo e vide con orrore che la sua ombra era nella direzione opposta rispetto alle altre ombre.
Il nervosismo, prima immotivato, ora che aveva trovato una giustificazione si trasformò in vero e proprio panico. Si sentì vulnerabile e colpevole, lo sguardo da animale braccato si posò su un'isola di buio e svelto scivolò verso il muro, sotto i portici. Sembrava che nessuno l'avesse notato, non ancora. Confuso, cercò nella memoria avvenimenti strani della notte, del giorno precedente, peccati che potesse avere commesso, sgarbi, mancanze, bestemmie: nulla di ciò che si ricordava gli sembrava confrontabile con la stregoneria che gli era capitata.
Si accorse di stare correndo su una strada sterrata: in preda al terrore era uscito dalle mura, e si trovava ora in mezzo a uno spazio aperto, senza possibilità di celare la sua vergogna. Rallentò, stava sudando e aveva oramai perso completamente il controllo di sè. Intorno la gente era indaffarata e non sembrava fare attenzione a lui, ma non ci sarebbe voluto molto affinché qualcuno lo notasse. Ecco, due viandanti stavano per incrociarlo. Si portò la mano al fianco sinistro, dove teneva il pugnale, deciso a uccidere chi lo avesse scoperto. I due si avvicinavano a testa bassa senza curarsi di lui ma il cane che li accompagnava si mise ad abbaiare sentendo, ne era sicuro, la maledizione.
I due viandanti alzarono la testa, gli occhi terrorizzati, pronti a fuggire da Federico, quando si bloccarono con gli occhi nuovamente a terra. Bofonchiarono qualcosa, e Federico in quel momento notò le loro ombre e quella del cane: non divergevano dalla sua, ma ne erano parallele. Senza una parola Federico si aggregò a loro, lasciarono la strada e si avviarono tra i panni bianchi stesi ad asciugare, la fronte sempre bassa a terra e il cane spavaldo al loro fianco. Giunti in mezzo al prato, sotto il bastione di San Maurizio, i due viandanti si sedettero a terra. Federico non era d'accordo, lui intendeva allontanarsi maggiormente dalla città: litigarono, ma era evidente che, qualunque decisione fosse presa o qualunque cosa fosse accaduta, i tre uomini e il cane non si sarebbero più divisi, accumunati dalla disgrazia. Infine Federico si piegò al volere degli altri due, si accovacciò e, con la testa tra le ginocchia, in silenzio come i suoi compagni, attese il tramonto come unica liberazione possibile.
Al calare del sole i tre si avviarono verso Porta Palazzo, la testa china nonostante il buio. Federico li ospitò nella sua casa dove, senza parole, si coricarono.
Il mattino successivo, dopo una notte insonne, Federico si svegliò, si guardò timorosamente intorno e vide che la sua ombra era tornata normale: la maledizione era terminata. Scese dal letto, svegliò bruscamente i due compagni di sventura del giorno prima e, inveendo, li spinse fuori dall'uscio, poi tornò nel letto soddisfatto di sè.
Il racconto prende spunto dalla "Veduta di Torino dal lato del Giardino Reale" dipinta nel 1745 da Bernardo Bellotto e visibile alla Galleria Sabauda di Torino.
In primo piano nel quadro sono presenti tre uomini e un cane che hanno curiosamente l'ombra al contrario rispetto al resto del quadro.
Pubblicato il 10 aprile 2004.